Sapete, è il mio primo romanzo che va a pubblicazione. Una storia così lunga è diversa da articoli – accademici, giornalistici o ‘creativi’ che essi siano. Un romanzo nasce tuo malgrado, vive una sua adolescenza a prescindere dal genitore, si ribella, scappa ed è incoercibile nella sua sete di indipendenza. Se gli chiudi una porta, esce dalla finestra, e bisogna dedicargli molta severità. Allo stesso tempo, però, bisogna stare in campana per fare sì che cresca in modo armonico, che respiri, che tesaurizzi le sue esperienze. Quindi bisogna dosare la severità con una qualche dolcezza, molta comprensione e tantissimo ascolto. Sembra difficile, e alla fine lo è. Però è allo stesso tempo tutto molto naturale: dentro un romanzo c’è molto di chi lo scrive, anche se lui fa di tutto per nasconderlo. Si vergogna, non vuole camminare con te che gli tieni la mano, è grande. Rileggendolo, tenendoti a distanza di pudicizia, riconosci te stesso, in quel caos di personaggi, situazioni, costruzioni linguistiche, soluzioni narrative. E nella rilettura, si annidano delle sorprese vere. Cose che stupiscono anche il più disincantato degli esseri umani, e che svelano dinamiche intime e meccanismi identitari altrimenti sepolti, invisibili. Nel mio caso, ad esempio, la fase di editing ha messo in luce una vera e propria ossessione per l’attribuzione di personalità e un concreto problema con l’autostima; me ne sono accorto rivedendo le correzioni, e applicando una lunga serie di emendamenti atti a limitare il ricorso paranoico all’aggettivo possessivo. Quando sulla colonna di destra delle revisioni vedi una media di 6/7 ‘suo’, ‘tuo’, ‘mio’ per cartella, ti rendi conto di avere un problema con l’autostima, con il controllo, con l’autoaffermazione. La mia analista ritiene la cosa interessante. Mi devo preoccupare?
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