Ho cominciato a scrivere L’India da Gandhi a Gandhi 2 da un po’. Come al solito, in maniera discontinua e pigra. In principio, l’idea era quella di un testo divulgativo sull’India contemporanea, sulla falsariga del lavoro di mio padre del 1977. Mi sono buttato a capofitto nella sua stesura grazie ad una fortunata convergenza di coincidenze. In primis, il cambiamento di assetto economico e politico dell’India conseguente all’internazionalizzazione della sua economia negli anni novanta, con una classe media per la prima volta realmente massa critica, e la conseguente ascesa delle destre, frutto della decomposizione della visione Congressista e della nuova visione privatistica e predatoria del capitalismo post-neocon . Poi l’esplosione della questione diasporica, grandissimo volano di sviluppo, ma anche specchio di un modello sociale non privo di punti critici, con la moltiplicazione di énclaves chiuse all’interno di comunità ospitanti e la (ri)nascita di movimenti politici, più o meno in tutto il mondo, che sfruttano questa situazione di “pressione etnica“. Il tutto con alle spalle tre anni di dottorato centrato sull’identità, con molto materiale raccolto e organizzato, ideale base di partenza per il pigro di cui sopra.
Anche la differenza di metodo, necessaria, per compilare un “manualetto di comprensione” sembrava uno stimolo interessante; mio padre l’ha scritto con un’Olivetti Lettera 32, sulla scorta della sua esperienza e dei suoi testi di riferimento. La sua grande conoscenza dell’Induismo, frutto della sua estrazione Brahmanica, i libri di Janardan Thakur, giornalista politico indiano coevo di mio padre e tutti quei riferimenti di cui il mio lessico familiare serba ricordi abbastanza chiari.
L’India da Gandhi a Gandhi 2, viceversa, nasce e si sviluppa nell’ambito dell’attuale situazione della comunicazione; internet, i siti di informazione, le ricerche bibliografiche fatte da casa, Ramchandra Guha al posto di Thakur. Lo compilo con un MacBook Pro, e lo dedico non più a qualche curioso che vuole informazioni nuove, ma a molti imbecilli che vogliono trovare delle conferme ai poveri concetti instillati nel loro teste da un potere nuovo.
Le differenze sono tante, e per certi versi sono metaforiche di quelle che insistono tra me e mio padre. Stesso cognome, simile estrazione ma tutte le differenze del mondo, specialmente a causa dello scorrere del tempo. Io sono un figlio dei miei tempi, lui era uno dei suoi. Io sono uno dei devastati dalla società della comunicazione di massa di cui parlava Pasolini negli anni sessanta, lui è nato sotto la Corona Britannica. Lui è andato in cerca del suo destino attraversando il mare, io ho aspettato invano il mio destino a casa mia, salvo poi emigrare, ma un po’ più vicino. Lui era un professore preparato, stimato e molto prolifico; io sono un ricercatore pecione e isolato, alquanto stitico e dispersivo nelle mie pubblicazioni. Se lui conosceva bene una cosa, io ne conosco male una decina.
Ad un’occhiata rapida, insomma, le distinzioni fanno sì che il prestigio sociale dei Mishra italiani abbia avuto da rimetterci, nel passaggio tra il padre e il sottoscritto. Ed è proprio in questo momento dell’elaborazione che il mio libro è diventato qualcosa d’altro.
Si può pesare il valore di un essere umano, oppure nel farlo prestiamo il fianco ad una distorsione che il Capitalismo impone alla società? Se si riflette sulla centralità che noi diamo al termine “valore” nel nostro comportarci, e contemporaneamente cerchiamo di porre l’accento sul mutamento semantico del termine, ci si renderà conto di come i significanti “prezzo” e “valore” si siano avvicinati moltissimo da una quarantina di anni a questa parte.
Il rapporto con mio padre è stato in larga parte frutto di elaborazione del lutto, un confronto concettuale più che pratico, data la sua dipartita avvenuta quando io ero solo un bambino che si stava per affacciare all’adolescenza, e allo stesso tempo un confronto ideale al limite dell’agonistico tra due maschi alfa. Questo, almeno, lo scenario da me dipinto in quasi trent’anni di mancanza.
Sta di fatto che nei sottotesti de L’India da Gandhi a Gandhi 2, hanno cominciato ad infiltrarsi degli elementi diversi. Narrativi. E il progetto ha subìto un colpo importante. Un saggio deve veicolare dati, anche se – nelle forme più divulgative – può indulgere in qualche licenza autoriale, sempre vincolata all’esattezza di fondo che compete ad un’opera scientifica. Il mio lavoro cominciava ad assomigliare sempre più ad una seduta di analisi, esposta e fuori luogo. D’altra parte, ci si metta nei panni di chi scrive: due storie, l’una che prende le mosse da dove si era fermata l’altra; due prospettive diverse, quella della prima e della seconda generazione, che analizzano due periodi che più diversi non potrebbero essere, in ragione dello sviluppo tecnologico e delle meccaniche di potere. Il tutto condito da un confronto che è pesato sulla testa del sottoscritto – ancora vivente – da quando si è affacciato all’università; un confronto sfuggito per quasi trent’anni, per poi decidere di affrontarlo con un Ph.D, da cui sono uscito con un’affiliazione universitaria ma con le ossa rotte. E il saggio diventava altro. Diventava lo scenario plausibile di una storia tra generazioni, autobiografica per necessità, ma con la libertà del romanziere, che può sovvertire le storie a suo piacimento, e rendere vero il falso e viceversa. Allora mi sono messo a smantellare tutte le certezze che hanno cementato la mia famiglia, tutta unita nel ricordo un po’ ipocrita di una persona che non c’è più, e su cui non si è indagato mai, un po’ per pudore, un po’ per una forma di rispetto che chi non è almeno in parte indiano non può comprendere in pieno, con buona pace degli studiosi occidentali che ho conosciuto (tutti di caratura assoluta, per carità) che non potranno mai esperire sulla propria pelle il percorso educativo e di inserimento sociale che ha un mezzosangue, o un originario, altresì orrendamente chiamato “di seconda generazione”.
Ciò che apre un percorso del genere non è prevedibile appieno. Ma m’intriga in maniera sufficiente a farmi accantonare la stesura del secondo capitolo de “Il Sangue di Trilussa”, e la biografia sui Funkallisto, che al momento – pur essendo il progetto forse più commercialmente sfruttabile – passa in terzo piano. Anche perché, dalla Repubblica Ceca, è un po’ difficile seguirlo a dovere.
Tra un po’ – anche grazie ad un sito rinnovato e che ospiterà tutti i miei blog, vi aggiornerò.
Forse.
Scrivi un commento