Mentre i media continuano a tambureggiare sugli stessi temi da sabato scorso, il solito risveglio tardivo delle coscienze comincia ad affiorare, sui Social networks prima, nei bar poi, e infine nei salotti televisivi.
Le parole chiave sono sempre quelle: trattativa (funziona sempre), teppisti, camorra, napoletani e varie ed eventuali. Come contraltare, le parole della mamma del ferito che sembrano uscire da Madre Teresa di Calcutta, tutta una perdonanza e un amore universale; salvo il fatto che poi si cade nel pietismo napoletano, che spinge sul pedale della discriminazione e del pregiudizio. Avrà anche un fondo di verità, ma è lettura parziale e stucchevole, con buona pace dei feriti cui vanno i miei migliori auguri. Vespa, nel frattempo, si frega le mani e manda contributi a rotta di collo.
Ciò che stride in questa rappresentazione disonesta – ed è piuttosto ovvio – è la centralità della figura di Genny, il quale diventa iconograficamente il simbolo di una situazione di degrado, cui si assiste con le mani legate. Napolitano tuona contro gli ultrà. Alfano (Alfano?) ipotizza DASPO a vita; Abete invoca il modello inglese (arbitrario e tatcheriano, è bene ricordarlo), eletto come panacea di tutti i mali del calcio, e ‘sti cazzi delle profonde differenze tra tessuti sociali britannico e italiano). Il tutto per una faccia patibolare (ma uno non se la sceglie) e una maglietta di pessimo gusto, che però sempre una maglietta è.
Si cade dalle nuvole perché esiste la possibilità che un esponente del tifo organizzato possa avere voce in capitolo. Si fa un frullatone tra Gastone (sempre lui) che parla con Totti durante il “derby del bambino morto” con Genny che parla con Hamsik prima dell’inizio della partita. Peccato che nel primo caso si trattasse di una notizia falsa creata ad arte per fomentare disordini, mentre il ruolo del secondo è stato probabilmente fondamentale per tenere sotto controllo sessantamila persone inferocite. Non si prende atto del suo ruolo. No, lo si paragona a Bogdanov, lo si arringa come capopopolo, delinquente, ultrà, camorrista, utilizzando senza risparmiarsi tutta la zona di grigio lessicale che allude, instilla, ipotizza. Il tutto senza filtri di alcun genere.
Poi, incidentalmente, succede che tra Saxa Rubra e Tor di Quinto si sia scatenata una guerriglia urbana, che si siano usate pistole (precedente importante), che si sia creato un contatto tutto da ricostruire che ha portato due persone in fin di vita: uno, Gastone, linciato, azzoppato probabilmente per sempre, e a cui è stato fracassato il cranio. L’altro, Ciro Esposito, colpito alla colonna vertebrale da un proiettile. Proiettile esploso da una pistola che non avrebbe maneggiato Gastone, visto che lo Stub è negativo. Nel mezzo, feriti meno gravi, bombe artigianali a base di chiodi a tre punte, esplosivi casasrecci, spranghe e lame. Tutto questo è completamente estraneo a Genny, che è in un altro posto (il suo, lo stadio).
Ci si guarda bene dal ricordare che la sparatoria è accaduta vicino ad un luogo di aggregazione neonazista ben noto alla DIGOS, che è rimasto aperto e ignorato dai servizi di sicurezza. È nei suoi paraggi che si è consumata l’ennesima figura di merda dello Stato Italiano di fronte al mondo. In Grecia si ammazzano per le politiche liberticide dell’Europa delle Banche, da noi – che stiamo messi più o meno uguale – per la Roma e per la Lazio, per il Napoli e l’Hellas Verona, etc. etc.
Allora, uno si chiede: in un paese in cui una ragazza che ha accompagnato l’ex presidente del Consiglio al G8 viene fermata con 24 chili di cocaina all’aeroporto, in cui figure di spicco della vita politica sono condannati, quando non latitanti, ha senso esporre Genny la Carogna alla pubblica riprovazione?
Non sarà che la solita tecnica della distrazione di massa serve a spostare il fuoco dalle cose serie (l’incapacità gestionale del servizio d’ordine; le responsabilità istituzionali che hanno permesso allo stadio di diventare una zona di legalità limitata, o un laboratorio di legge naturale; la compressione della violenza che dagli stadi sta infiltrando la vita pubblica – si pensi agli scontri per gli incerenitori, i No Tav, i movimenti per la casa) a faccende “di colore”, tipo la maglietta di un capo tifoso?
Qui il fatto non è lo stadio, ma quello che succede fuori. Dentro lo stadio, al momento, ad essere degna di questo nome è rimasta solo la protesta dei Laziali contro Lotito, relativa esclusivamente a questioni sentimental-calcistiche, gestionali e societarie. Il problema è che il campanilismo sportivo non basta più, e si cerca di incanalare violenza e frustrazione cieche in un alveo di logica, quando ormai lo scopo della devastazione non c’è. È solo la normale conseguenza di una mentalità che gli ultras hanno subìto, prima ancora che imposto. Tornelli. Tessere. Poliziotti offerti come passatempo domenicale a ragazzi che vogliono solo menare le mani per sfogarsi, basta tenerli lontani dalle piazze. Mano a mano che il tempo passa, si perdono le ragioni dell’odio, e rimane solo un’abitudine alla violenza che ha perso la memoria dei suoi motivi.
Lo Stato nella sua pluriennale incuria italiota è primo artefice di questo buco di legalità, sempre più grave, sempre più profondo, sempre più frustrante. Meno male che il suo braccio secolare – la stampa 2.0 – ha trovato il suo Genny Scacciarogne.
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