Oggi è il giorno della partenza. Alle 19:50 partirà il treno da Déli (che NON è la capitale di Bharat Mata pronunciata da un veneto, ma la stazione meridionale della città di Budapest) alla volta di Pećs, dove domani illustrerò il corso dei miei studi ad una platea che immagino festante e interessatissima alle dinamiche identitarie della diaspora indiana espresse nel Romanzo Indo-Anglian.
Nel frattempo, c’è una giornata da vampirizzare, e tante cose da vedere. Il programma è entusiasmante: si parte con altri bagni termali, i Szecencsczi (credo si scriva così, stiamo sul treno e la LP che sta sopra le nostre teste sembra essere lontana come Pećs – siamo appena partiti); dopo i bagni ci si farà un giro per il Parco Municipale che li ospita, e poi a Piazza degli Eroi, che lungi dall’essere l’inizio delle Medaglie d’oro, promette sfracelli nazionalistici.
Arriviamo alle terme verso l’una. Il solito traccheggio con gli armadietti, questa volta espletato con noncurante abitudinarietà, ed ecco che entriamo nel complesso, bellissimo anche questo:
All’esterno, una piscina con corsie per nuotare a 26 gradi; una vasca a gradini, circolare, chiusa per manutenzione, e una terza vasca con statue sputanti acqua a 40 gradi e signori impegnati in partite a scacchi a mollo; grande e sfiziosa. Dentro, diversi piani, con saune da 40 a 80 gradi, vasche con acque dai 20 ai 40, bagni turchi all’eucalipto e saune con cromo terapia. Il tutto distribuito su un’ampia superficie, chiusa da cupole decorate da fregi art déco. Belle, pure queste. G&E cominciano a suinizzarsi in vasche piccole, spesso occupate da trichechi scandinavi e balene spiaggiate teutoniche, queste ultime guardate avidamente da numerosi avventori dagli occhi a mandorla, da poco depauperati della loro caccia marina preferita, e desiderosi di ricominciarla, anche per guadagnare spazio vitale hitleriano.
Dopo qualche ciclo di caldo-freddo, Giacinto si avventura per le sale, coinvolgendo Erminia nel suo tour. Il senso è quello di utilizzare TUTTO quello che il biglietto comprende, per non avere un singolo rimpianto. Ne vale la pena: i due accumulano benessere, nella (vana) speranza che la sua durata sia più lunga nel tempo. E quindi via alle saune, agli idromassaggi, ai bagni turchi, alle vasche caldo-freddo, al ghiaccio dopo trattamento… Vengono snobbate solo le vasche dai 34 ai 38 gradi, che vengono etichettate come democristiane e boicottate con altera sufficienza. Dopo due ore e mezza di questo andirivieni, i due decidono di averne abbastanza, ed escono, dirigendosi alla volta dei rispettivi spogliatoi, dandosi un appuntamento dopo il phon dell’Erminia. Dopo mezz’ora di inutile attesa, Giacinto parte alla ricerca della consorte. Nemmeno il tempo di chiedere che viene attorniato da inservienti che – sì – sanno chi sta cercando, e – sì – sanno dove trovarla. È successo che Erminia è incautamente uscita, e non riuscendo a rientrare, ha imbruttito in Laurioto a tutte le persone vestite di bianco che avevano avuto la sfiga di incontrarla, riuscendo a far chiamare Giacinto all’altoparlante, come i ragazzini al supermercato, solo che Giacinto non ha sentito. Insomma, tutto è bene quel che finisce bene, e quindi i due si riuniscono. La fame è mondiale, e si decide di prendere degli spiedini e un hamburger modello Poldo Sbaffini in un chiosco del parco. Tutto molto buono ( le dita di Giacinto puzzano di senape anche la sera sul treno), peccato che gli occhi tendono a chiudersi tipo tapparella, causa legnata post-termale. Strascinandosi pateticamente, mossi solo dall’avidità, G&E arrivano su un laghetto artificiale
E raggiungono Piazza degli Eroi attraversando un ponticello di metallo molto carino;
La piazza è – nuovamente – un esempio di monumentalità retorica da periodo tra le due guerre mondiali. Spazi molto larghi con statue di condottieri, un obelisco alto più di trenta metri e lo spazio delimitato da un colonnato di gusto Berniniano e da costruzioni con timpani e colonnati tipo Partenone. Nel complesso un po’ kitsch, tutto come al solito piuttosto nuovo ma con pretese di antichità.
Nel frattempo, tira una Gianna che stacca le orecchie. Ermina, forte del suo colbacco comprato il giorno prima si lagna solo per il sonno e il calo di zuccheri, mentre Giacinto bestemmia in Ugro-Finnico, con il maglione legato sulla testa per limitare gli effetti del freddo. Così combinato, il dinamico Duo prende la metro alla volta di casa. Ma a Belvarós Erminia realizza che devono ancora passare da GebUd, la migliore Pasticceria di Budapest. La pasticceria è bellissima, e i due si accomodano incautamente a un tavolino, in mezzo a tedeschi e americani. La sala è asburgica, e i piatti dei vicini dannatamente invitanti. Erminia prende una Cheese Cake, Giacinto uno strudel di mele. Insieme, ordinano un caffè speciale della casa (950 fiorini l’uno, limortacciloro) che però regge il paragone con quello di S.Eustachio:
Le torte sono da urlo, così come il conto, che viene più o meno come il persiano della sera precedente. Ma ne è valsa la pena: quell’iniezione di zuccheri permette alla coppiapiùbelladelmondo di arrivare a casa, docciarsi, fare le valigie e fiondarsi verso la stazione per tempo.
Qui, due notizie dall’Italia irrompono nella giornata, una bella e l’altra brutta, come nelle barzellette. La brutta è che è venuto meno il dominus di Moneti, e la notizia la abbatte un po’. La bella è che, causa virus intestinale, la branca Toscana degli Scaldaferri è costretta a rimandare la discesa al ponte del 25 aprile, ragion per cui, I CANI FARANNO PASQUA CON NOI! Dopo una settimana da sole, questo è il giusto premio per le pipidi adorate.
Dopo un rapido caffè, rimane il tempo di raggiungere il binario 4
E partire alla volta di Pećs.
Dopo 4 ore di viaggio piuttosto confortevole, arriviamo a Pećs. La stazione è spettrale, fa un freddo amaro e realizzo che l’indirizzo della casa è un puntino rosso all’incrocio tra due strade. Prendiamo un taxi, Moneti comincia a dare segni di una certa perplessità, e ci dirigiamo a quell’incrocio. Il vento tira a una sessantina di chilometri all’ora, e faranno circa 6 gradi. Giriamo alla ricerca della signora Marta (la quale aveva detto che ci avrebbe aspettato davanti casa). Niente. A parte degli ululati lontani, non si vede e non si sente nessuno. La perplessità monetese comincia a diventare insofferenza. Daje torto. Camminiamo al freddo avanti e indietro, attivo il roaming internazionale (non oso pensare quanto mi costerà) per inviare suppliche a Marta, rimaste inascoltate. Comincio a bestemmiare orrendamente, desiderando per lei una morte lenta e di sofferenze; Moneti non è manco più incazzata. Ha solo freddo. Decidiamo di andare in albergo. Tripadvisor ci dice che a 80 metri c’è n’è uno. Non lo vediamo. Incontriamo un gruppo di studenti ubriachi, che c’è lo indica: è chiuso. Un cazzo di albergo chiuso, fino al primo maggio. Sul cartello c’è scritto che il più vicino si chiama Olimpion o non so che cazzo, e prendiamo il secondo taxi della giornata per recarcivisi. Vici.Si.
Sulla strada, però, vedo una bettola che mi ispira: hotel Diana, tre stelle che più pulciose non te le puoi immaginare. Alla reception, il portiere più rincoglionito dell’Europa centrale ci dice che c’è una stanza libera, ma è molto piccola. Accetto senza riserve, e pago 43 euri per una stanza che però a Moneti piace moltissimo: è una soffitta, con abbaino e finestra ogivale, che al posto del materasso ha dei sedili di una Golf degli anni novanta, ma che è calda e straordinariamente accogliente, per Giacinto ed Erminia infreddoliti e incazzati come formiche rosse in guerra:
Nel tepore del piumone, dopo aver ingerito un panino di sicurezza, i due sprofondano in un sonno strano; Erminia dorme, ma a tratti si agita, Giacinto ripassa l’intervento del giorno seguente, mentre fuori la pioggia comincia a ticchettare sull’abbaino. Ci ha detto bene, tutto sommato, anche se la prima cosa che comprerò a Roma sarà una bamboletta voodoo con le fattezze di quella vecchia stronza che ci ha lasciato fuori a languire!
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