Ci svegliamo nella stanza mini verso le otto del mattino. Piove che Iddìo la manda, e il cielo promette che è solo l’inizio. Niente male.
Scendiamo a fare colazione, e, anche per compensare le 20€ in più che abbiamo dovuto sborsare a causa della vecchia puttana, ci facciamo riconoscere al buffet della prima colazione. Moneti pare Danilo a Berna, e io inguatto panini in tasca come Dan Akroyd vestito da babbo natale ne Una poltrona per due:

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Dopo una rapida lavata, mi metto la camicia buona (Moneti prova a strangolarmi e me l’abbottona al collo), la cravatta d’ordinanza e parto alla volta della facoltà di medicina con l’autobus (il 2).
Piove, sono nervoso, la città non mi piace e mi girano le balle a frullo.
Arrivo all’Università,

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e mi trovo una grande hall dove sta avendo luogo una Poster presentation.

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Sono colpito dalla presenza di molti sponsor, più o meno ovunque. Particolarmente dal vecchietto del Kentucky Fried Chicken, che non vedo come possa entrare dentro un’Università. Mi torna alla mente No Logo di Naomi Klein, e mi rendo conto di quanto siamo andati avanti nel processo di commercializzazione delle nostre esistenza. Chiedo ad un ragazzo che pare uno steward se sa dove si tenga la III conferenza Dottorale dell’università di Pećs, e lui non lo sa. Esco, e vedo i pannelli informativi della conference. È quella. Chiedo ad una bionda in tailleur blu che pare Eva Henger il materiale informativo, e lei mi dà nell’ordine: una busta di carta con dentro raccolta di Abstract, Programma degli Interventi, quadernone e penne con sponsor; un cartellino con il mio nome scritto sopra; l’informazione che io non sono atteso. Ringrazio per il calore umano, e ricordo lo scambio di mail con Katarine Hartung, che svela l’arcano: in realtà ci sono, ma in un foglio singolo nascosto sotto una pila di altri fogli. Un po’ incazzato, salgo al primo piano, dove si tengono le conferenze di umanistica. Mi fermo in un’aula dove sta avendo luogo una presentazione sull’occupazione Ungherese in Bosnia nel 1878 (almeno credo, visto che è in ungherese), ed esco quando realizzo che il mio gruppo non è quello di Storia, ma quello di Linguistica e letteratura.

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Cambio aula, e imbocco quella giusta. Qui, due signore dall’evidente cattiveria accademica stanno maltrattando in magiaro una ragazzetta, la quale si difende come può. Tutto il mondo è paese, e qui non si fa eccezione. Il mio intervento è pianificato per le 13. Realizzo che la ragazza che dovrebbe precedermi da programma (l’unico intervento in inglese, sull’insegnamento via internet della lingua) è quella che sta parlando. E sono le 11:20. Insomma, quanti hanno dato buca? Le due signore dicono qualcosa in ungherese, e chiamano platealmente una pausa. Al ché io scendo e mi presento. Ovviamente non sanno chi io sia, e questo non giova al mio umore già basso. Mi viene chiesto se voglio parlare subito o dopo la pausa; decido per levarmi il dente appena possibile, e snocciolo il mio intervento. Mi rendo conto che l’uditorio (manco dieci persone) non è molto interessato alla doppia personalità di un Gomusta, quindi tento di rendere l’intervento un po’ più “spendibile” argomentando molto la cornice degli studi, e le implicazioni su larga scala della mia indagine. Il fatto è che temo che qui non ci sia confidenza con l’inglese, anche se il mio è piuttosto plain e academic. Termino l’intervento in meno dei 12 minuti concessimi, e non segue nessun dibattito. Le due attempate dottoresse (specializzate, scopro dopo, in letteratura magiara) mi lasciano andare, e io mi precipito a messaggiare Moneti: Pećs non mi piace, e me ne voglio andare il prima possibile.
La prima notizia decente della giornata è che non piove più, l’ennesima brutta è che continua a fare un freddo amaro. Prendo l’autobus, e mi ricongiungo alla consorte, la quale mi aspetta sotto un enorme cavallo che si chiama Leonardo, poiché il progetto era nientemeno che di Da Vinci:

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Prendiamo un caffè, durante il quale io aggiorno Erminia delle mie vicissitudini da ricercatore e poi ci rechiamo in un centro informazioni, dove cominciamo a gestire il problema del volo dell’indomani. È più grave del previsto. Pare che Wizzair non abbia i nostri nomi, e che sia necessario pagare 110€ per cambiare il nome sulla prenotazione. Mecojoni. Decidiamo di andare alla stazione, cambiare prenotazione e partire all’una e dieci, così da avere più tempo a Budapest, magari per fare due regalini. Ce la facciamo per il rotto della cuffia, e abbandoniamo questa cittadina senza rimpianti. Dal treno chiamo WizzAir, e col mio modesto inglese cerco di far capire all’operatrice che io non c’entro un beneamazzo con i loro errori e che non esiste che debba pagare 100€ perché questi, invece del mio nome, hanno scritto VhGJkjH.
Dietro suggerimento dell’operatrice, chiamiamo BravoFly, responsabile della prenotazione, che per il solo fatto di essere chiamata vòle 6€, dalla carta di credito. Più il costo della chiamata (la sto facendo dall’Ungheria con il mio telefono, e mi costerà uno sproposito, più il roaming di ieri.
Mi risponde un troione che dice di chiamarsi Chantal. Mi chiede di aspettare, e cade la linea. Porco qua, porco là. Richiamo, ridò il numero di carta, e mi risponde un’altro mignottone, che però ha l’accento dell’est. Le chiedo gentilmente di evitare di ri-addebitarmi il costo della seconda telefonata, e mi risponde in maniera talmente vaga che – giuro -non la riesco a capire. Una super cazzola in rumeno.
Mi assicura che mi manderà i dettagli del Booking via mail, oppure che mi richiamerà. Il rischio è che – sì – il biglietto sia valido, e che – no – il checkin on line non sia possibile farlo. Il ché significherebbe altri 20/30€ che anche no.
Nel frattempo, la notizia positiva è che arriveremo a Budapest intorno alle 16, invece che alle 20. Almeno questo…
L’arrivo nella capitale è previsto per le 16:30. Nel frattempo ci stressiamo come animali spendendo miliardi di telefono, cercando di venire a capo della situazione prenotazione. Puzza, la cosa nasce molto male. Ecco la campagna Ungherese che sfila dai finestrini del treno:

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Arriviamo a Budapest che io sono incazzato come un picchio, e Moneti ha il suo bel da fare per ricondurmi alla calma. Mi metto a traccheggiare sull’ipad, nel tentativo di venire a capo della situazione. Richiamo la BravoFly, che si cattura allegramente i dati della carta di credito per la terza volta, e un operatore un po’ sallucchione cerca di infondermi fiducia con un’incertezza tale da precipitarmi nel panico più assoluto. Mi promette l’interessamento di un responsabile, e mi invita alla calma. Intendiamoci, il mio understatement è britannico, ma temo che la preoccupazione di perdere il volo traspiri da ogni mio poro.
Usciamo a fare la spesa per i panini del giorno dopo, e torniamo a casa, meditando un’ultima cena fuori budapestese. Mentre stiamo per andare a fare i regalini a Vaci Utca, telefona il famoso responsabile della BravoFly, per cui Moneti va da sola, mentre io mi sbatto per risolvere la questione. Grazie a Dio, pare fatta! Salvo le carte d’imbarco su PassBook (che è un’invenzione geniale, lo ammetto) e la serata assume un altro colore. Torna Moneti carica come una renna di cazzatine, vestitini e quant’altro, e andiamo alla volta di un ristorante di fama. Completo. Allora chiamiamo il francese, che volevamo provare il primo giorno. Completo. Ruminando improperi, cominciamo a vagare, anche perché non ci si fida completamente della tecnologia, e cerchiamo una copisteria per il supporto cartaceo. Non la troviamo, ma in compenso Moneti individua un buiaccaro ungherese che ci ispira molto: tovaglie a quadroni, un odore di porco che lassa perde ed enormi birre su tavoli di Crucchi rubizzi. Ci fermiamo, e ordiniamo antipasto e primo. Zuppa d’aglio squisita per me, delle crêpes ‘nzevate (bòne) per Erminia. Poi arrivano i secondi: un pollo alla paprika su letto di fregnacce per me, e uno stinco di brontosauro con patate, cipolle, verza e almeno altri tre tipi di generi edibili non identificati. Ci vuole un boccale di birra modello Oktoberfest per mandare giù quel ben di Dio.

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Alla fine, dopo avere spazzolato anche le patatine fritte, mi prendo il lusso di ordinare delle crêpes alle noci che sono buonine, ma un po’ troppo alcoliche. Lungo l’intero tragitto verso casa (siamo vicini) ho l’impressione di infartare almeno tre volte. Però arrivo inspiegabilmente vivo, e pure Moneti, che però ha smesso di parlare metà stinco fa, e ha un occhio che guarda Rosati e l’altro Canova da almeno tre quarti d’ora. Il meritato riposo arriva, alla fine, e il sonno lava via Pećs e BravoFly.