Non so perché su CH a un certo punto mi sono sentito investito dal sacro fuoco della militanza. Sono antifascista e antirazzista, ma non ho mai sentito la necessità di espormi in prima persona. Non so precisamente il perché: da una parte la mia ben nota pigrizia, dall’altra la vaga sensazione di stare nel mezzo di un fiume tra due sponde, e di essere troppo lontano da entrambe: l’una quella dell’etnicità minoritaria, l’altra quella dell’appartenenza ad una media borghesia piuttosto conformista.
Poi arriva ClubHouse. La reificazione del social che ho sempre desiderato, quello che ti fa usare la parola come vettore, e che premia le capacità oratorie e di gestione organica del pensiero. Finalmente! Basta mischiarsi con truppe cammellate d’imbecilli, con i loro stendardi di “la gente anno le palle piene” o “l’Italia e dei tagliani”; come potrebbero mai reggere un colloquio senza farsi esplodere la testa?
E infatti, all’inizio è stato proprio così. Complici la voglia tutta pandemica di relazione a tutti i costi e il limite della piattaforma – orrendamente borghese – ai soli iPhone, c’era un’atmosfera di reciproca accettazione che faceva pensare al Cristianesimo delle origini. Una specie di “Rivoluzione Gentile”, fatta di conversazioni costruttive, e di voglia di aprire il cervello.
Poi, a un certo punto, si sono cominciate a creare polarizzazioni; il “caso Adinolfi”, bannato da CH a causa (pare) di un gruppo di persone che si è organizzato per segnalarlo in massa, ha mostrato la vera natura di questo social. Valgono i numeri, e i numeri li fai se dividi, non se unisci. Se strepiti, non se argomenti. All’algoritmo piacciamo quando ci scanniamo, non quando ci organizziamo.
Insomma, a un certo punto mi sono sentito (per cazzi miei) investito di una missione: cercare di articolare un pensiero antirazzista (ma più largamente un pensiero antidiscriminatorio) sulla base di un confronto e di un’elaborazione, per cercare di uscire dai mille rivoli di discussione creati ogni giorno dal moltiplicarsi dei catfights: e la “F-word”, e la “N-Word”, e la “P-Word”… gente che cerca di scoraggiare l’uso di parole sgradevoli con il brillante metodo del: “tu questo non lo puoi dire, perché te lo dico io”, con la prevedibilissima conseguenza che molte persone d’accordo in linea di principio su un linguaggio più rispettoso si sono allontanate invece di avvicinarsi.
Io ho partecipato a diverse room sul tema, organizzate da polarità opposte, tutte quante caratterizzate dallo stesso pattern: si cominciano ad enucleare concetti in linea con l’audience della room (quindi gli Adinolfidi contro i gay – ma non è omofobia, è “natura”; i Luxuridi contro i credenti – ma non è un fatto di religione, ma di bigottismo; Afrodiscendenti contro caucasici – ma non è vendetta, è giustizia). Ora, a parte gli adinolfidi, io comprendo perfettamente le istanze di cui sopra. Solo che – mi chiedo: siete davvero così imbecilli da pensare che questa polverizzazione faccia il gioco di qualcuno che non sia un “Padrone 2.0”? Cioè, è possibile che davvero qualcuno creda che le lotte a colpi di like facciano l’interesse degli oppressi?
E insomma, ci ho provato. Ho fondato un “Club” (manco Forza Italia nel 1995) intitolato “#AntiRazzismoCafone” sotto cui ho aperto un paio di rooms a tema. Non avevo piena coscienza del perché, solo una diffusa sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato in tutta l’architettura del dibattito in corso. Il risultato è che un’isterica mi ha aperto una “room contro”, cioè a dire, un processo in assenza in cui sono stato chiamato “negro da giardino” (perché la N-word va evitata solo da alcuni), “servo dei potenti” (vai a capire perché) e “utile idiota” (tipo il consigliere leghista di origine africana che dice “aiutiamoli a casa loro”, credo).
Ora, io non sono abituato ad interpretare i pensieri di chi per dieci anni fa il coglione al Goa di Roma e poi un giorno si sveglia “attivista LGBT+”, perché di attivisti veri ne conosco e hanno un profilo intellettuale un bel po’ diverso e tutt’altra statura. Mi ha divertito la cosa, perché mi ha reso – vuoi o non vuoi – protagonista: oggi se non hai un troll non sei nessuno. D’altra parte, però, mi ha intristito; avrei voluto almeno provare ad articolare un ragionamento; non con quel coglione, ovviamente, ma con persone di cui ho indovinato un disagio che conosco, e con i quali avrei avuto piacere di confrontarmi. Perché sono giovani, e perché so come ci si sente, in certe situazioni.
Vabbeh. Sta di fatto che mentre rimanevo incastrato in questi scambi tossici – nella loro forma sembrano quasi gli sproloqui dei cocainomani – continuavo a ragionare su cosa mi suonasse sbagliato in quella situazione. Poi, venerdì scorso, l’epifania: il reportage di Diego Bianchi sulla comunità indiana dell’area pontina. Trentamila persone trattate come animali dalla malavita organizzata, senza documenti, senza possesso della lingua, senza diritti e senza futuro. Vessati da quelli che sono stati istruiti a chiamare “Padroni” (vorrei tanto sentire il ghigno di qualche criptofascista mentre dice “ancora ai padroni, stai”), ghettizzati da un popolo impaurito e mantenuto nell’ignoranza e nella paura, che è vittima ma si sente carnefice, dentro quest’allucinazione collettiva in cui viviamo. Tutti incatenati ad un racconto fatto di luoghi comuni, di generalizzazioni irricevibili, che ci incatenano ad una modalità binaria che appartiene alle macchine e non al pensiero umano.
E allora mi domando: quando nelle room di afrodiscendenti sento gli sfoghi – legittimi – di chi si sente discriminato per il colore della pelle, per il suo genere o per i suoi gusti sessuali, sto assistendo ad una lotta POLITICA oppure PRIVATISTICA? Chi difendo mentre empatizzo con chi subisce insulti razziali? Sto realmente empatizzando, o sto trovando solo una risonanza con il mio disagio?
“Empatizzare” significa mettersi nei panni di qualcun altro. Troppo facile farlo con quelli come me (anche se più ‘ggiovani). Io voglio una battaglia politica, voglio diritti per tutti quelli che ora fanno andare avanti un sistema marcio e fondato sulla diseguaglianza. Voglio lo Statuto dei Lavoratori ESTESO, non MINATO.
Quello cui invece assisto è un antirazzismo da social, una lotta finta, e combattuta nei modi e nei luoghi che ci vengono imposti da chi ha tutto l’interesse a mantenere uno status quo inaccettabile (e invisibile) come questo.
Io voglio una lotta sociale. Raccolgo l’invito di Aboubakar Soumahoro, a rendere visibile ciò che è nascosto, e a difendere il diritto alla sicurezza e alla tutela dei lavoratori. Voglio staccarmi da questo mondo a due dimensioni fatto di salaci post su FB e cominciare a considerare tutte le diseguaglianze a tre dimensioni che ci circondano nel mondo reale. Perché c’è vita oltre il “decoro”.
Viviamo in una giungla ibridata con un Centro Commerciale. Assistiamo allo svuotamento del pubblico, al trionfo del particolaristico sull’interesse generale, alla lotta per la reputazione sul web (che monitoriamo con ansia) che sostituisce la lotta per i diritti dei subalterni. Testimoniamo la disgrazia della politica selezionando le classi dirigenti in TV o sui Social, per poi lamentarcene come se si fossero insediati nei centri di potere col voto dei venusiani. Io credo che il problema prioritario in Occidente non sia tanto quello del razzismo, ma quello dell’esclusione dai diritti di larghe fasce del tessuto produttivo; il primo è una conseguenza del secondo; l’incomunicabilità, l’incomprensione e la rabbia non hanno un fondamento etnico, ma culturale; non parlo della “cultura” intesa come stratificazione storica, ma come processo di elaborazione d’identità, di lotta e di affrancamento. E riguarda TUTTI, senza distinzione di etnia, genere o status sociale.
Perché, come spesso mi capita di dire – rimanendo altrettanto spesso inascoltato – il razzismo è un problema di tutti, a prescindere dall’etnicità. Il razzismo discende dalla considerazione delle persone, e finché terremo centinaia di migliaia di persone in stato di semi schiavitù, la percezione della differenza non potrà mai essere re-immaginata.
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