Caro Etere,
Aggiungo un mattoncino alla diatriba Checco Zalone Sì/Checco Zalone No.
Lo faccio perché dalla Repubblica Ceca il dibattito italiano arriva per riverberi, anche se la compresenza di social e di infrastrutture tecnologiche di livello permette agli emigrati 2.0 un’interessante esperienza di continuità territoriale apparente.
La distanza, infatti, è virtuale; le notizie non arrivano annacquate, c’è totale sincronismo nella loro fruizione. Ciò che manca è il terreno fisico comune, la “diretta”, che genera l’hype e che concorre a creare le basi di una discussione su larga scala. Intendo dire che i corsivi sui giornali, i commenti dell’uomo della strada sui social, i podcast che trattano l’argomento, vengono fruiti in modo diverso da chi vive oltreconfine. Nel mio caso, essi sono parametrizzati ad un contesto estraneo, che è quello in cui vivo: una città mitteleuropea, medio-grande, caratterizzata da marcatori identitari molto lontani dai nostri.
Osservare da Brno che la gente si accapiglia su questioni così povere di contenuto mentre la nazione sta fallendo *NON* fa lo stesso effetto che dall’Italia (oddìo, sessanta milioni di euro forse sono un buon motivo per discutere, in un mondo così intellettualmente miserando come il nostro). Si può dire, quindi, che non sono le mere notizie a creare i presupposti per un dibattito tossico. E’ la nostra ansia di protagonismo, ben foraggiata da meccanismi favoriti dall’azione coordinata di media, che spingono modelli ipercompetitivi e centrati sul “giudizio”, e di tecnologie che sbracano qualunque modello gerarchico, dando l’illusione che le parole dell’ultimo stronzo abbiano la stessa valenza e lo stesso peso di quelle di Umberto Eco.
Il risultato di questa tensione? Una massa informe di gente che scopre l’ebbrezza di uno Speaker’s Corner globale, convinta di essere elemento discriminante di un ragionamento del quale non è altro che massa critica, denaro per i pochi che sanno come indirizzare queste nuove, redditizie forme d’onda.
Ed ecco, quindi, che al netto del rumore di fondo, il discorso su Zalone ha una sola matrice: i siòrdi.
Sono siòrdi quelli che hanno acceso la miccia del dibattito, ma sono siòrdi anche quelli a monte di questa operazione commerciale Valsecchiana, che ha portato ad invadere le sale del paese con 1500 copie del film. Avessero distribuito così un film di Kiarostami, chissà di che si sarebbe ciarlato. Sono siòrdi quelli che guadagnano gli opinion makers e i gestori di portali che intercettano e canalizzano traffico al fine di finanziarizzare persino l’etere.
Poi c’è un indotto che ha sempre a che vedere coi siòrdi, tipo Albano e Romina ripescati a fare una trasmissione, dopo una provvidenziale citazione nella pellicola.
Ora, io non sono mai stato in gran confidenza coi siòrdi. Proverò ad entrare nel merito della discussione da un punto di osservazione che mi è un po’ più congeniale. Vorrei affrontare gli aspetti identitari, formali e contenutistici del fenomeno Zalone, per cercare di spiegare non tanto il successo del film, che è chiaramente frutto di strategie commerciali ben pensate e ragionate (a partire dai trailers, che in realtà sono scenette, per arrivare al lancio preventivo della Hit del film, la Celentaniana “La Prima Repubblica”), quanto piuttosto capire perché uno Valsecchi investe su Zalone invece che – ad esempio – su Alessandro Tirocchi, o qualche altro onesto professionista.
Checco Zalone o Luca Medici?
Partiamo dal personaggio di “Checco Zalone”. Che Cozzaro. Che Cozzarone. Checco Zalone.
Lo so, la genesi del suo nome è cosa nota, ma è difficile rendere il peso del termine “Cozzaro” se non ha una certa confidenza con quel pezzo di Puglia che va da Brindisi (esclusa) a Foggia (esclusa, pure). Dalla Valle d’Itria all’entroterra barese, passando per certe zone del Tarantino, essere “cozzari” non è solo una definizione. E’ davvero un marcatore identitario. E’ il contraltare di una borghesia volgare e arricchita, che spesso nasconde le proprie umili origini con i privilegi assunti dalla professione o dall’impresa. Ma il cozzaro è con loro, quando non IN loro. Il cozzaro è quel parente che disgusta tuo padre e fa ridere tua madre. E’ l’artefice della lite durante le feste natalizie. E’ quello che ha votato Craxi, Berlusconi, Maroni perché “gli hai rotto il cazzo”.
Allo stesso tempo, il Cozzaro è testimone del suo tempo. Vive, lavora e si riproduce sotto il tuo stesso cielo, ma nel mondo dorato dell’intellettualità italiana non ha diritto di parola. Esiste come asserzione del suo contrario, come rafforzativo delle peggiori idiosincrasie della (fu) sinistra. Ha diritto di macchiettismo, ma non di opinione. E’ un “rumore di fondo”, un disturbo fisiologico, un sottoprodotto culturale del lavorìo di trent’anni della TV commerciale.
Chissà Luca Medici, musicista di estrazione borghese della provincia di Bari, ragazzo dalla battuta salace in canna, raffinata dallo spirito del mestierante della musica (invece della reintroduzione della leva obbligatoria, io renderei obbligatori 12 mesi di servizio presso i catering. Molti scoprirebbero un mondo – nascosto ai più – di grande saggezza popolare, di lavoro massacrante, dotato di una dialettica il più delle volte spiazzante). Me lo immagino, Luca, adolescente, nel bar della piazza principale, fare sbellicare gli amici e i conoscenti col Bucchinho Rigatu. Certo, magari è solo nella mia testa, ma la tensione di un ragazzo tra lo studio della tecnica strumentale e l’immediatezza della battuta boccaccesca è il centro vivo di ogni artista in erba. E’ l’esplorazione dell’umanità più sotterranea grazie al possesso della chiave universale psichica, quella musicale. Insomma, me lo immagino, LuChecco, mentre assiste alle discussioni calcistiche in quel di Bari, con quell’orecchio musicale maledetto, che ti fa notare le più piccole oscillazioni di significato.
Ora, non si tratta di stabilire quanto ci sia di Luca Medici nel personaggio di Checco Zalone. La cosa che più mi preme, in realtà, è stabilire che nel personaggio insistono per forza delle influenze altre che autorizzano il salottiero-comunista-con-il-rolex a leggere il fenomeno Zalone come una specie di maschera dell’amara commedia dell’arte contemporanea, un personaggio che è collettore degli effetti più nefasti della mediocrità italica. E tutti a sbellicarsi dalle risate, autorizzati da una prospettiva sarcastica, e daje tutti ad inneggiare al “Compagno Zalone”. Tutto questo accade mentre l’altra metà del paese si sbellica ugualmente, condividendo il personaggio Zalone su basi totalmente differenti. La sufficienza nei confronti di letture della realtà troppo complicate; una certa fierezza nell’ostentare alcuni vizi italici (razzismo, sessismo, omofobia), e quella faccia tosta che è al centro di una comicità popolare, diretta, esplosiva.
Insomma, Zalone è giocoforza anche Luca Medici, e i due convivono in una dimensione distorta, in cui il confine tra due metà di un paese sempre sull’orlo di una guerra civile si sfoca fino a diventare un minestrone esistenziale in cui finiscono, semplicemente, tutti.
E’ buffo pensare come, proprio a causa di questo effetto omogeneizzante, Zalone divida. Divide la critica, che non sa spiegarsi come certi numeri siano appannaggio di una comicità piuttosto greve. Divide la sinistra (o presunta tale) che non sa trovare una posizione univoca alla sua comicità. Divide la destra, tra coloro i quali si sentono rappresentati e quelli che invece si sentono presi per il culo. Divide le generazioni, divide le famiglie, divide la stampa. Una specie di fissione nucleare, in cui più i nuclei si dividono, più l’energia erogata aumenta esponenzialmente.
Ma perché? Da che deriva questa divisione, a tratti feroce?
La teoria di chi scrive queste righe è che alla base di tutto ci sia una sostanziale incapacità italiana a prendere atto di sé stessa. Zalone è parte narrante di un’Italia numericamente rilevante, ma fondamentalmente subalterna. Il merito di Medici/Zalone è stato proprio quello di essere riuscito a trovare una voce per molte persone. Anche se può sembrare esagerato, l’invito a riflettere è d’obbligo. E’ dai tempi di Sordi, Manfredi, Tognazzi o Monica Vitti che l’Italia ha perso la capacità di rappresentare sé stessa. Da un lato è stato l’effetto “Vacanze di Natale”: una formula distensiva, autoassolutoria, priva di qualsiasi spessore e atta solo a far ridere grassamente, in maniera plautina; dall’altro il progressivo sgretolarsi della società solida, con i suoi riferimenti e le sue tassonomie, che ha reso molto più complicato il percorso per trovare un denominatore comune sufficientemente forte da provocare un qualsiasi percorso di immedesimazione. Si va per tentativi, si cerca di di rifinire criteri di ricerca, di restringere gli insiemi, in una ricerca forsennata di originalità in un mondo che sforna repliche a getto continuo. Si cerca “la caccola di Andrea Pazienza”: quel particolare segreto, intimo, proibito, che però arriva istantaneamente, unisce trasversalmente tutti e demarca la linea tra l’artista e il genio. Ecco, Zalone ha del geniale, se osservato da questa angolazione.
Ragioniamo sul film. Premettiamo: Il film è un Non-film, nel senso che si poggia molto sul suo personaggio, non ha una fotografia degna di questo nome, è essenzialmente un film scritto. Scritto molto bene, a mio parere. Checco rappresenta esattamente ciò che di più indicibile esiste nella nostra società: la difesa del privilegio meschino. Il “Posto Fisso”. Mi riesce difficile trovare, nella contemporaneità, un tema più caldo. Quando non è accuratamente evitato, viene vestito di tutte quelle costruzioni – di qualsiasi segno esse siano – che finiscono di privarlo della sua dirompente attualità. In Quo Vado, il tema è preso di petto, ed è spogliato di tutto, fino ad arrivare al suo ventre molle: il posto fisso, oltre ad offrire una posizione nella società a persone che non l’avrebbero altrimenti, rappresenta un ideale di tranquillità di esistenza, che altro non è che quello che ci è stato promesso fin da bambini, e che ci è stato negato in età produttiva, e così viene trattato, ma dalla prospettiva di un personaggio completamente (o quasi) privo di etica.
Poi c’è il percorso di confronto con gli altri, con il mondo “civile” (estremizzato attraverso la Norvegia) che – al netto delle macchiette stereotipate, comunque funzionali e non sempre scontate – presenta degli spunti mica da ridere.
Arance e Martello Vs. Quo Vado
Due estremi. Di comparazione al botteghino, manco a parlarne. Di competizione ideologica, me viè da ride solo al pensiero. Di due modi dissacratori di raccontare le frizioni di un paese diviso, però, si può parlare eccome. Zoro racconta l’Iliade di una sezione popolare del PD, popolata da una fauna alle prese con le esigenze di gente che nulla ha da spartire con la sua visione del mondo. Zalone l’Odissea di un personaggio che vaga per il mondo alla ricerca del proprio equilibrio. Nel primo caso, una narrazione corale affronta problemi collettivi, giungendo alla conclusione che solo attraverso il confronto fra le parti è possibile il conseguimento di un obiettivo. Nel secondo, nonostante il viaggio sia individuale e lo scopo sia profondamente egoistico (nemmeno Ulisse brillava di altruismo), il percorso di trasformazione vede necessariamente un’interazione tra parti che nella realtà viene negato su più piani: a partire dai pollai televisivi, fino alle discussioni al pranzo di Santo Stefano tra il cugino compagno e lo zio camerata. Zalone e Zoro invocano entrambi un sano confronto, di quelli in cui si è disposti a lasciare un pezzo di sé da qualche partti. Cambiano i linguaggi: Zoro è più tormentato, dispera nelle reali possibilità della ‘ggente; Zalone, viceversa, è più difficile da interpretare, anche in virtù della grandissima Lettura/Scrittura che lo contraddistingue. Sembra buonista quando ti sta per rifilare una coltellata, sembra cinico quando invece ti offre quella scappatoia che cercavi e che non avevi mai trovato. Alla fine rinuncerà ai suoi privilegi, firmando una carta con la mano sinistra.
Come a dire, la parola *fine* a noi non piace proprio per niente.
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