Cinque dita di Violenza
Di nuovo,a bomba, su Tarantino; intanto una precisazione: è vero, abbiamo un’ammirazione sperticata per il regista del Tennessee, ma per motivi totalmente egoistici; la sua voracità totalmente priva di selezione, ha una naturale affinità con intere generazioni, che hanno ingurgitato qualsiasi cosa trasmessa da una televisione a cavallo tra il pubblico e il privato, dove il monopolio di stato dell’etere, almeno in Italia, cominciava appena ad essere messo in discussione. E così, si passavano ore ed ore di fronte allo schermo. Si alternavano Jeeg il robot d’acciaio con Samurai, Supercar con Megaloman e via discorrendo. Intere generazioni prendevano le misure con un certo stile di ripresa, quello delle produzioni passate alla storia come “di serie B”. Tra queste, un posto d’onore lo occupano senz’altro le pellicole orientali degli anni 70’, quelle che nel nostro paese venivano colloquialmente chiamate “Film di Kung Fu”. Erano, per intenderci, quelle serie ininterrotte di miagolii e botte, che ci facevano segare il manico della scopa (se era di legno) della mamma per costuire un Nunchako. Funzionava così: si segava via metà scopa, ottenendo due pezzi di legno di circa 25 centimetri l’uno. Si piantava un chiodo ricurvo su ciascuna delle parti che infine si legavano l’un l’altra con circa 5 cm di spago. Una volta occultati i resti della scopa, si poteva andare a fracassarsi il setto nasale, cercando di far roteare vorticosamente la nostra arma tremenda sotto le ascelle. I Films di arti marziali conobbero una grande fortuna negli anni settanta, inserendosi- in occidente – nello spazio che gli “spaghetti western” stavano abbandonando. Originari soprattutto di Hong-Kong, dove ancopra oggi esistono sale cinematografiche che proiettano solo pellicole del genere, questi films invasero gli prima gli Stati Uniti, dove dapprima conobbero grande successo, poi vennero adderittura cooprodotti.
Un po’ di storia – Il genere di combattimento a mani nude è cosa relativamente recente; se infatti le tematiche dei films di spadaccini (oggi tornati molto in voga – vedi La tigre e il Dragone o Hero) affondano le radici nell’opera cinese, i combattimenti a mani nude si fanno risalire agli anni quaranta, per mano di Kwan Tak Hing, personaggio praticamente sconosciuto in occidente. Erano pellicole in cui le coreografie venivano curate dagli stessi attori. Per il film “Made in Hong Kong”, così come lo conosciamo, dovranno passare altri venticinque anni di trasformazioni: storie al limite del mitico come quella del maestro Wong Fei Hung, personaggio storico-mitico incarnato in tantissimi films degli anni 40’, cederanno il passo a nuovi caratteri, come Wang Yu, impersonato da un giovane Bruce Lee in un film che in Italia è arrivato come “Con una mano ti rompo, con due piedi ti spezzo”. Ed è con Bruce Lee che il cerchio trova la sua quadratura; il nome noto a tutti, l’urlo conosciuto in tutto il mondo; il trait d’union tra Oriente e Occidente. I suoi film sul ciclo di Chen sono stati visti da tutti (quello ambientato in Italia, L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente vede anche un giovane Chuck-“Walker Texas Ranger”-Norris, prima avvisaglia dell’interesse statunitense per il genere, sublimato nella produzione Warner Bros del 1973 I tre dell’Operazione Drago). L’aura di mito che circonda Lee è data da diversi aspetti. Un po’ la poca chiarezza sulle circostanze della sua morte, un po’ per l’uscita de L’ultimo combattimento di Chen, posteriore di cinque anni la sua morte, e portata a termine con una controfigura, il personaggio Lee è stato messo in quel limbo tra storia e mito che è proprio di pochissimi personaggi dello spettacolo, quale Bruce Lee – è bene non dimenticarlo – era.
E in Italia? – Verso la metà degli anni settanta, come già accennato, il filone spaghetti western segna il passo: Con il ciclo di Trinità, ad esempio, la matrice violenta, sanguinaria e sudata lascia spazio ad una lettura più scanzonata, fatta più di cazzotti che di sparatorie, che farà la fortuna della coppia Spencer-Hill. Nel frattempo, era il 1973, esce quello che è definito l’antesignano del genere, Cinque dita di Violenza, di Cheng Chang Ho. Il successo che riscuote è clamoroso, e sulla sua scia vengono importate altre pellicole, i cui titoli vengono furbescamente tradotti Le quattro dita della furia, il già citato Con una mano ti rompo, con due piedi ti spezzo e La morte nella mano (quest’ultimo con Wang Yu, icona del genere). Ma anche i registi di casa nostra si cimenteranno nel genere, sfruttando l’esperienza maturata nel western. Ne usciranno piccole perle, come Il mio nome è Shangai Joe di Mario Caiano, violentissimo mix tra generi in cui spicca per ferocia Klaus Kinski; oppure tutta la costellazione di films al limite della parodia come Storia di Karate, Pugni e Fagioli di Tonino Ricci o Tutti per uno…Botte per tutti di Bruno Corbucci, Là dove non batte il sole, con Lee van Cleef. Per concludere, una citazione d’obbligo (anche se non propriamente a tema): Ku Fu? Dalla Sicilia con furore, dove Franco e Ciccio parodiano il genere.
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