Crediti Foto: ANSA/MASSIMO PERCOSSI

 

Voglio scrivere una riflessione sugli strascichi che la manifestazione di ieri ha lasciato sui social.

Indipendentemente dalla mia posizione (aspramente critica nei confronti dell’idea di “Europeismo” così come declinata nella piazza per diverse ragioni che ho già esplicitato e che non ripeterò) la mia attenzione è caduta sulla capacità/disponibilità di articolare sui social una discussione – per sua natura conflittuale dato il nocciolo della questione – da parte di chi ha appoggiato l’iniziativa di Serra e ha fatte proprie le  poche e confuse parole d’ordine della piazza.

[Avvertenza: qui parte un Pipponcino sulla natura dei Social e sulla loro capacità di condizionare il nostro linguaggio, e quindi il nostro modo di ragionare]

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Ora, da un lato c’è da considerare la natura polarizzante del linguaggio dei social, che è a monte della formazione dei nostri pensieri (un mio amico di vecchia data, parlando di questi temi al telefono, ricordava che “i pensieri si formano in bocca”): non è una novità che al centro di un successo su queste piattaforme ci sia la capacità di “triggerare”, orrendo neologismo che significa “causare forti reazioni emotive che portino ad una risposta basata sull’impulso e non sulla razionalizzazione”. È un risultato facilmente ottenibile attraverso il ricorso all’insulto e alla provocazione.

Quello che ne discende è una modalità dialettica che è viziata da un “bias” – altro orrendo anglicismo che si potrebbe rendere con “pregiudizio” – che porta le persone a dialogare non tanto con chi c’è dall’altro capo del filo (o più modernamente “sull’altro nodo della rete”) bensì con la sua proiezione, basata sulla scelta delle parole e del registro dell’interlocutore, che introiettiamo e consideriamo vera.

Da qui scattano gli attriti che portano ai “flames”, cioè alle liti furibonde che si consumano qui sopra tra persone generalmente abbastanza in avanti con gli anni che generano “engagement”, cioè quella apparente passione polemica che porta a litigare e che fa la gioia di chi su di essa “monetizza” (cioè, ce fa i siòrdi).

Ora, i social in questo 2025 compiono ventun anni.

In 21 anni algoritmi progettati per condizionare la nostra modalità linguistica hanno avuto tutto il tempo per lavorare: abbiamo cominciato a usare Facebook che avevamo 30 anni, e ora ne abbiamo 50. Come se non bastasse, in mezzo c’è stata una pandemia che ci ha distaccato ulteriormente da noi stessi, i cui strascichi verranno fuori piano piano, in tutta la loro gravità.

Allora, noi siamo più devastati di quanto non siamo disposti ad ammettere a noi stessi.

Pur tuttavia, abbiamo rapporti che ci portiamo dietro da anni, e spesso ci relazioniamo sui social con persone con le quali abbiamo un’amicizia di una frequentazione anche nel mondo reale; poi, un po’ per pigrizia, un po’ per i vincoli che la vita adulta ci mette, un po’ per abitudine STRATIFICATA NEL TEMPO, abbiamo cominciato pian piano a demandare sempre più le nostre relazioni alla sfera digitale.

Ed è proprio sulla distanza che  c’è OGGI tra la relazione “vera” e quella “virtuale” che vorrei impiantare il ragionamento.

[Fine Pipponcino]

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Veniamo a ieri.

Molte persone che compongono la mia bolla – quelle cui mi riferisco sono tutte degnissime, spesso conosciute e apprezzate di persona da molto tempo, a diversi livelli di confidenza – sono state alla manifestazione di ieri a Piazza Del Popolo. Molte di loro hanno voluto condividere le loro sensazioni, la loro esperienza, il loro appoggio all’iniziativa di Serra.

La manifestazione di Piazza del Popolo è stata una delle 3 che si sono svolte ieri (se guardate solo RAI e LA7 potrebbe esservi sfuggito). Lo specifico per sottolineare quanto l’opinione pubblica sia divisa su come approcciare il tema dell’Europa in questi tempi tormentati.

Molte persone (tra cui – ammetto – il sottoscritto) si sono identificate in un altro messaggio, rappresentato dalla colorata, polifonica, confusa e “sconnocchiata” gente di piazza Barberini, che ha avuto molto meno scorta mediatica e su cui non mi soffermerò in questa sede.

Basti sapere che è un messaggio radicalmente diverso da quello di Serra, Scurati, Vecchioni, Formigli, Picierno etc.

Due idee, entrambe declinate da pezzi consistenti di società civile che si sono trovate ovviamente in rotta di collisione l’una con l’altra.

Ora, la Democrazia tanto decantata dagli interventi della Manifestazione di Piazza del Popolo è possibile solo se si riesce ad articolare un conflitto tra parti. In assenza di esso, non si può più parlare di “Democrazia”, perché viene meno quel senso di pluralità e di alternanza senza i quali ci troveremmo di fronte ad una forma di governo diversa.

Cosa ne è stato del conflitto?

Che portato semantico ha la parola, nella testa di ognuno di noi?

La parola, ad oggi, ha un’accezione POSITIVA o NEGATIVA?

Io credo che in questi 20 anni (ma non solo, è la natura del Linguaggio) molte parole abbiano conosciuto una distorsione rispetto al loro portato originario. Alcune – tipo Condivisione hanno proprio cambiato significato: ce n’è di differenza tra dividere un qualcosa in diverse parti o moltiplicarlo all’infinito e distribuirlo, no?

Altre, penso appunto a conflitto hanno conosciuto una squalifica, sono state riconfigurate nella nostra testa: da che avevano un valore sostanzialmente positivo, ora lo hanno negativo.

Non ci piace più la parola conflitto. Non evoca più un’idea di discussione, ma piuttosto di guerra. Di lotta per la sopravvivenza.

Mi è difficile non pensare ad una relazione tra questa inversione di polarità e il linguaggio così come i Social lo hanno trasformato. Ventuno anni di pratica linguistica “social” ha trasformato l’idea che abbiamo del conflitto, dell’obiettivo che ci prefiggiamo quando vi ci troviamo nel mezzo. Sui social il conflitto non porta mai a “sintesi”, ma piuttosto ad “engagement”. Il Conflitto non è più un confronto alla ricerca di un compromesso tra parti, ma una spirale senza fine di screzi e controscrezi, alla ricerca della battuta più salace, della vittoria di un certamen al ribasso, tutto per soddisfare la propria intima ossessione di avere quella cazzo di ultima parola, magari davanti ad una platea plaudente quasi sempre immaginaria.

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E allora torniamo ancora un attimo alla piazza di ieri.

C’era un grande orgoglio (oltre i limiti del più becero Orientalismo, ma è un altro tema, più per specialisti che altro) nel dipingersi “Alfieri della democrazia”, nel sentirsi, in qualche modo, migliori degli “altri” (non specificati).

Perké, signora mia, ‘aa Temokratsìah!  Vòi mette?

Ma che democrazia può esistere se si guarda al conflitto come a un qualcosa da eliminare dal dibattito invece che il sale di esso?

Che “democrazia” può esserci in un processo in cui ciò che consideriamo “deviazione dalla norma”  va sterilizzato, disinnescato, espunto dal discorso?

Ecco, ho notato in più di una persona che si è trovata a perorare le istanze di Piazza del Popolo sui social QUESTA attitudine.

A volte sofferta.

A volte Arrogante.

A volte sprezzante.

A volte inconsapevole.

La tendenza a chiudere i commenti, ad impedire lo sviluppo di un conflitto invece che prendersi l’accollo (perché di ACCOLLO si tratta) di governarlo, di dargli una direzione, un senso.

E allora io mi sono chiesto: quanto della nostra “libertà di parola” è davvero tale?

Ho già ricordato più sopra quanto gli esseri umani siano agiti dal linguaggio, quanto siano “parlati” piuttosto che “parlanti”.

Ma chi detiene *LE LEVE* del linguaggio contemporaneo?

Quanto siamo ancora in grado di essere costruttori di significati complessi, invece che terminali di istruzioni altrui?

Noi parliamo di democrazia MENTRE ne picconiamo l’agente principale, il conflitto. Ci accorgiamo di che ossimoro siamo prigionieri?

Magnifichiamo la superiorità del nostro modello di pensiero mentre silenziamo chi vede cose che noi non vediamo e attribuiamo pregi o difetti a terzi, in maniera totalmente automatica ed egoriferita.

Prima era Lazio Vs. Roma.

Poi è diventato Vaccini sì Vs. Vaccini no.

Adesso Sistemi Buoni Vs. Sistemi Cattivi.

È sempre la stessa declinazione: “Noi” Vs. “loro”.

Il fatto è che questa antinomia, sempre più manichea, sta arrivando in fondo alla sua strada.

E in fondo, diceva Primo Levi, c’è il Lager.