Caro Tatti, questa è una lettera aperta, ed è una lettera di scuse.
È colpa mia. So di avere avuto un ruolo importante nella tua lazialità, pure se sono stato attento a non essere eccessivamente manipolatore nei tuoi riguardi. Se però ti ricordi, te lo dissi: “Sappi, Save, che essere laziali è una strada in salita. Non sono le vittorie che ci rendono forti, ma il nostro riconoscersi, la nostra identità che non si è mai sfilacciata, nemmeno quando i campi su cui giocavamo erano ad Ascoli e Campobasso. Non è attraverso le vittorie che dovrai difenderti dagli attacchi dei tifosi di altre squadre, ma attraverso l’unicità di una storia che non ha uguali al mondo, e attraverso l’amore per questi colori, spesso frastimati dalla sfortuna e dall’ingiustizia”.
Sapevo che ti sarebbe piaciuto il ragionamento. Perché, in generale, laziali prima si nasce, poi ci si diventa. E credimi, se non avessi visto il laziale che è in te, non ti avrei rivolto quelle parole.
Ti ho regalato per Natale il cofanetto con i DVD della storia laziale, quello che fu mio. Fatti un giro. Vedrai che la nostra epica non si incardina solo attorno a scudetti e coppe vinte, ma anche ad imprese incredibili, per cui gli “altri” ci prendono anche in giro, mentre noi sorridiamo sotto i baffi, compatendoli per la loro pochezza. Perché, vedi, la lazialità non si basa sui trofei, ma sulla consapevolezza di essere unici. Sull’orgoglio di una scelta difficile portata avanti con tigna.
Ma questa è una lettera di scuse.
Nella nostra storia travagliata ci è capitato di tutto. Penalizzazioni. Tribunali. Polizia in campo. Anni di mediocrità. Morti accidentali e padri nobili scomparsi per malattia. Crack finanziari. Tifosi assassinati. Tradimenti e ravvedimenti.
Tutte cose che ci hanno temprato, che hanno reso la nostra lazialità più forte, più dura. Tutti avvenimenti che hanno coagulato tanti cuori attorno ad una fede.
Quello che viviamo da una decina d’anni a questa parte, però, non ha precedenti. Perché – come oramai sai, hai dodici anni – a noi possono attaccarci da tutti i lati, in tutte le maniere, anche le più scorrette; ma non faranno altro che renderci più forti, perché il laziale vero si riconosce dalle cicatrici. E non importa se sono cicatrici di scontro, come gli Ultras che vanno allo stadio in tutte le situazioni, oppure cicatrici dell’anima, come quelle che ha tuo zio, tifoso laziale prima da radiolina e poi da poltrona, ma non per questo meno ferocemente attaccato all’Aquila.
Ora il nostro nemico ci sta uccidendo. Sta riuscendo a fare quello che non è mai riuscito a nessuno. Perché i suoi attacchi vengono da dentro. La nostra Lazio ha una brutta malattia, un tumore che la sta divorando. Un cancro che ci ha diviso, sfregiato, umiliato, depresso. Che ci sta sfilando l’unica cosa che credevamo inalienabile: il nostro entusiasmo, la nostra fierezza.
Per la prima volta nella nostra storia centenaria, abbiamo un motivo di cui vergognarci. La Lazio, la nostra Lazio, appartiene ad un individuo la cui arroganza e pochezza sono pari solo alla sua incapacità come dirigente. Un uomo che non riesce a vedere altro che prezzo, e non ha la benché minima idea di cosa sia il valore. Solo i “siòrdi”; un individuo che incarna il peggio dell’Italietta, quell’entità meschina da cui spero tu stia imparando a prendere le distanze: l’Italia dell’uovo oggi, dei falsi in bilancio depenalizzati, del cognato in politica che ti fa avere quell’appalto. L’Italia che ti minaccia sfruttando le imperfezioni di un ordinamento; l’Italia in perenne ricerca di visibilità, quando la cosa migliore sarebbe nascondersi.
Il Calciomercato di riparazione si è concluso. Tu sarai dispiaciuto perché Hernanes, quel giocatore di cui andavi fiero, che sbandieravi come baluardo di fronte ai tuoi amichetti che se la stanno passando meglio di te calcisticamente parlando, è stato venduto all’Inter. Una squadra su cui cercavamo un’improbabile rimonta per arrivare nell’Europa dei Poveri (quella che ci compete al momento). Ora ci vuole un miracolo. E se dovesse accadere – potrebbe, i Laziali lo sanno bene – stai pur certo che quel “qualcuno” verrebbe a smorzarci l’entusiasmo, raccontando le solite fandonie, e attribuendosi meriti altri dal semplice culo. E questo riuscirebbe a farci ripiombare nello scherno generale.
Insomma, nipote mio: scusa. Scusa se ti ho dischiuso le porte dell’Inferno: una volta non era così.
Non so se esistono modi per riprenderci quello che è nostro (che non sono – appunto – i “siòrdi”, ma la fierezza di cantare a squarciagola i nostri inni): sta di fatto che – in genere – i cani non mollano mai l’osso, almeno volontariamente.
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