Il pubblico dell’auditorium è quello degli aficionados. Ci si incontra nell’atrio, prima dell’inizio del concerto, e ci si scambia un paio di convenevoli. “Quanto tempo”, “che stai combinando?”, “suoni ancora?”, e via così, fino all’inizio. E’ curioso come in certe situazioni, in cui l’essere umano è “intruppatocomeuntedescodellaIVarmatanel1942inRussia”, si divaghi con la mente verso lidi differenti, che poco hanno a che vedere con l’evento cui si sta per assistere; la portata è mondiale: una delle uniche due date italiane (l’altra è al Blue Note a Milano) di Jim Hall, in duo con Enrico Pierannunzi. Il brusio non si placa – c’è la romabenedisinistra sulle poltrone, e quelli – si sa – parlano. Poi un presentatore (“all’Auditorium?” – è il commento di alcuni nasi arricciati) ci invita ahimé alla conferenza stampa per la prossima stagione, poi lascia il palco ai due. Quando entrano, la sensazione è raggelante. Jim Hall, freddo come una granita, parte con un blues in 12 bars che dura qualcosa come dieci minuti. La situazione è orrenda. Penso adderittura di andarmene (dopo i primi cinque minuti – io ODIO i blues in 12 bars), ma poi rifletto: -“Hagi, ‘sti due sono due fenomeni. Non possono ridursi a questo. Lancia il cuore oltre l’ostacolo, resisti al blues, non alzartichefiguracifai?”. Reggo stoicamente. Il blues finisce tra applausi di liberazione. Ora o si comincia a far sul serio, oppure me ne vado davvero, con buona pace del rispetto per il mito vivente. Nemmeno il tempo di pensare la ferocia di un mio commento che note flebili, praticamente il solo volume della semiacustica non amplificata, annunciano My Funny Valentine. Il silenzio è di tomba. La chitarra è sommessa, il tema è intriso di una nostalgia che chiude lo stomaco. E quel signore anziano, con la chitarra a tracolla, con la faccia di Sean Connery, diventa un testimone, e la sua chitarra il suo verbo. L’atmosfera è decisamente cambiata. Dall’irritazione del primo pezzo sono passato ad una commozione sincera, partecipata. Gli applausi, scroscianti, mi svegliano dal sogno. Mi trovo Pierannunzi davanti al microfono, che presenta Jim Hall – secondo chitarrista del secolo secondo il sondaggio di una rivista americana specializzata nel settore, dopo Bill Frisell (il Pat Metheny senza mignolo prima di questo qui? Ah, Pat Metheney ha 60 punti, contro i 130 di Hall e i 160 di Frisell). Mentre bestemmio orrendamente tra me e me pensando a Django Reinhardt e Joe Pass nemmeno menzionati, Skylurk e Sentimental Mood scivolano via, distrutte e ricostruite, maltrattate e vezzeggiate. improvvisano, i due, e non c’è tempo di cristallizzare questa o quella frase: ce ne sarà un’altra subito dopo che spazzerà via la precedente. In Sentimental Mood, non trovando un finale al primo tentativo, ne sono usciti TRE. Un errore, uno sbaglio, se succede a te ad una session, ti puoi trovare col capo chino, sotto lo sguardo inquisitorio di un pubblico che sembra non aver aspettato altro tutta la sera. Qui la storia è diversa, perché da uno sbaglio suonato da questi due, nasce musica con la M maiuscola. Dopo un Waltz di Pierannunzi suonato bene, con la parte davanti (” The Point of the Issue” composto – a detta del pianista la mattina stessa), il primo bis regala Stella- irriconoscibile per 5 minuti, ma densa e saporita come una Jam, e All the Things you are, anch’essa dipanata dai due come un micino avrebbe fatto con un gomitolo di lana: Efficace e bellissimo da vedere. Il Terzo bis (Ho ancora le mani rosse) è stato Body and Soul. Quando le luci si sono accese, gli occhi si sono socchiusi, e la sigaretta del dopoconcerto è stata dolcissima. Le persone incontrate all’entrata scioglievano il tabu, parlando ora solo del concerto e della sua bellezza. Qualche critica volata sulla diversità dei due dialetti musicali è stata trasformata in un complimento, poi, davanti ad un bicchiere di vino, le discussioni hanno cominciato a vertere su altro. Segno che il concerto ha funzionato.
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