20140330-164848.jpgEcco qualche paginetta, risultato di un parallelo tra due scrittori Angloindiani distanti duecentoventi anni. Dice, il mondo cambia, e la scrittura stessa cambia di segno in molto meno. Vero. Eppure, a ben guardare, i punti di contatto ci sono sempre. Come dire, ogni artista pone al centro della propria opera il significato. Più esso è nascosto, più l’opera vale, in quanto carica da un punto di vista simbolico. È un brano del mio lavoro, ma credo possa essere interessante anche ai non addetti.


The Travels of Dean Mahomet

Nonostante la decade degli anni trenta del novecento siano considerati a ragione il periodo di decollo definitivo della letteratura indiana in lingua inglese, i primi esperimenti di romanzo sono ben più antichi, e si spingono fino alla fine del XVIII secolo; al momento il primo esempio documentato di romanzo Indo-Anglian è The Travels of Dean Mahomet, romanzo epistolare autobiografico edito nel 1794. Il libro racconta

[…] His autobiographical travel narrative with his wrenching departure in 1769 from his childhood home among the Muslim elite of north India. He concluded it with his voyage of immigration to colonial Ireland in 1784. Through Travels, he presented his personal account of the multitude of peoples and customs he encountered while marching across north India as part of the English East India Company’s military conquest of his homeland. His Travels thus represents a fascinating perspective on these peoples, these customs, and this colonial conquest: the first book ever written and published by an Indian in English.[1]

È un caso particolare, data la biografia dell’autore e il tempo durante cui essa si dipana, ed è una prima avvisaglia di un fenomeno di trasfigurazione identitaria, in assoluto anticipo sulle dinamiche sociali. Per certi versi, Dean Mahomet è emblematico di un passaggio di sistema, dall’autoctono all’imperialista; posto di fronte ad una scelta di portata epocale, quella tra l’obbedienza al vecchio sistema o a quello nuovo, rappresentato dalla Compagnia delle Indie e alle sue possibilità, egli sceglie di aggregarsi all’esercito della Compagnia, come attendente di un ufficiale Irlandese, Godfrey Evan Baker, e poi di operare una cesura molto netta con il complesso tradizional-culturale all’interno di cui era cresciuto, optando dopo la morte di quest’ultimo per l’emigrazione in Europa e per un matrimonio con una donna Irlandese (protestante), Jane Daly. In questo percorso tormentato, battuto da molti indiani più di un secolo dopo, si possono identificare alcune delle tematiche più importanti della meccanica di potere insistente tra Inglesi e Indiani: nel sodalizio tra Baker e Mahomet vediamo una prima declinazione tra sfumature di subalternità: l’Irlandese rappresenta non già il vertice, nonostante il suo grado, ma una forma intermedia di potere, attraverso cui arrivare ad un controllo del territorio e dell’elemento autoctono. Lo schema è verticistico, ma la catena di comando è organizzata per gradi contigui. Sarà un modello vincente, tanto da essere replicato – con le dovute differenze – anche nel settore amministrativo prima della Compagnia, poi dell’Impero. Dean Mahomet racconta nelle sue lettere la sua scoperta dell’India; è una visione molto interessante ai fini di uno studio ragionato sulle meccaniche identitarie rappresentate in letteratura, poiché il suo report si pone a metà strada tra la consapevolezza dell’indiano che cerca di tradurre il mondo a lui familiare a beneficio dell’occidentale con la minore perdita di significato possibile, e l’occidentalizzato, che pur essendo indiano, tende ad indulgere in un’ottica che assecondi la narrazione di un soggetto coloniale come subalterno all’occidente. A supporto di questa lettura, bisogna considerare che il libro nacque per un uditorio esclusivamente occidentale (venne pubblicato a Cork, alcuni anni dopo il trasferimento in Irlanda di Mahomet); inoltre, la componente commerciale dell’iniziativa ha un peso specifico se analizzata alla luce della biografia dell’autore: il Mahomet “Europeo” fece infatti della sua Indianità una fruttuosa merce di scambio, anche in ambito extraletterario: a parte la sua attività di scrittore, in cui

“[…] After all, wrote as someone from India for an audience of Europeans, representing himself and his background for their approval. Their images of India stemmed from their position as the colonizer not the colonized. Yet, Dean Mahomet too had fought to support the English Company’s colonial regime in India.”[2]

Egli ebbe una fiorente attività come cuoco etnico e come massaggiatore, occupazioni che gli portarono una relativa fortuna, almeno finché andò di moda nei salotti buoni di Londra. Tutte attività che da un lato portarono un’effimera fortuna all’ex soldato, il quale riuscì per un certo periodo di godere di grande reputazione e di un income più che dignitoso, e dall’altro contribuirono alla costruzione di un primo esempio di identità creolizzata, in verità piuttosto appiattita su posizioni filoinglesi e affatto incline a giudicarne le azioni secondo un punto di vista autoctono. In Dean Mahomet, insomma, si innesca quel meccanismo tipico della società indiana protocoloniale (da collocarsi prima della nascita del Congress e quindi dell’autocoscienza politica degli indiani), in cui la cultura del colonizzatore “va di moda”, anche di conseguenza dell’introduzione di un diverso modello di scolarizzazione, per cui  l’alta società tende ad imitare alcuni modelli comportamentali, fino ai limiti del parossismo. Più inglesi degli inglesi.

Una scelta del genere ha un peso specifico ancora più alto, se la consideriamo in tutta la sua dimensione pionieristica:

   “During these years with the Company’s army, Dean Mahomet’s relationship with other Indians remained ambivalent. While his Muslim relatives accepted him as an honored guest at their domestic rituals, he nevertheless stood as an outsider to their world by virtue of his attachment to the British. Some Indians in the countryside assaulted him as part of their resistance to British control; others rescued him and gave him shelter. In his life and writings, he revealed the social and cultural tensions inherent within that substantial class of Indians which fostered British colonial expansion over India.”[3]

È complicato trovare un equilibrio in una scelta che abbracci la propria dimensione identitaria così completamente. Nella prima fase di sovrapposizione tra modelli economici, in India si viene a creare una forte tensione tra tradizione e modernità, e il telaio dell’organizzazione sociale viene messo in discussione dall’introduzione del modello economico occidentale, che ha i suoi indubbi vantaggi che non tardano ad essere individuati dagli indiani di casta elevata. Gli inglesi rappresentano un’occasione di guadagno, e l’accesso al loro sistema amministrativo, più che da interpretarsi come una deroga di sovranità, viene accolto come opportunità carrieristica. I destini della letteratura indiana in lingua inglese, quindi, sono intimamente intrecciati con la fortuna dell’idioma straniero, divenuto improvvisamente un mezzo d’accesso a carriere di sicuro e solido reddito, nonostante esse siano poste in posizione subalterna al potere decisionale e amministrativo.


 

Amitav Ghosh

Amitav Ghosh è esponente di quella chi è stata chiamata, con notevole fortuna, Masala Diaspora intendendo con questo nome la Diaspora economica che ha caratterizzato l’emigrazione massiva di subcontinentali verso l’occidente, in special modo verso i territori anglofoni del Nord America. La definizione va pensata come antinomia a Sugar Diaspora, che identifica invece la diaspora conseguente alla deportazione degli Identured Labourers nei secoli XVIII e XIX).

Vive negli Stati Uniti, dove si è sposato con Deborah Baker (curiosa coincidenza, la moglie di Ghosh porta lo stesso cognome dell’ufficiale Irlandese per cui Mahomet ha prestato servizio), e dove ha due figli.

L’enciclopedia Britannica apre così la voce che lo riguarda:

  Indian-born writer whose ambitious novels use complex narrative strategies to probe the nature of national and personal identity, particularly of the people of India and Southeast Asia[8]

I suoi suggerimenti riguardo alle sue preferenze e alle sue fonti di ispirazione divergono a seconda di chi si trova davanti. Cita Bhandhopadhyay di fronte all’intervistatore di nome Khan, mentre a me dedica Calvino, presumendo, a ragione, che da italiano sia più attrezzato a comprenderne la poetica (non dovendo passare attravero una sua traduzione). Si può dire che l’unica notizia di un qualche rilievo che ho potuto cogliere dalla chiacchierata che ci siamo fatti e la sua assoluta laicità, incline all’anticlericalismo. Ma lo si può agevolmente leggere tra le pieghe della sua prosa. Le biografie che lo riguardano sono talvolta discordanti; quella ufficiale liquida la sua fanciullezza in poche righe, e per conoscere qualche spaccato del mondo indiano in cui è cresciuto, dobbiamo andare a cercare tra le pieghe delle sue interviste qualche ricordo familiare. Un ricordo di certo rilievo lo troviamo in un saggio in cui parla del suo rapporto con i libri e in cui menziona la centralità del ruolo del nonno nella sua formazione culturale[9], ma – appunto – è un saggio, un prodotto meditato, confezionato e ragionato per essere inserito in bibliografia. Ghosh vive nella società dell’informazione, in cui la grande differenza tra individui la fa la gestione dei propri dati sensibili, e il saper preservare e curare la propria intimità. C’è un’altra differenza fondamentale tra gli autori: la gestione della lingua. Mahomet ha vissuto in una società fondamentalmente razzista, e ha cercato riscatto nell’abbracciare lingua, usi e costumi di chi occupava la posizione di egemonia culturale, assimilandola ma non contaminandola. Lo stesso suo nome, Dean Mahomet, è un’anglicizzazione del suo nome arabo. Ghosh, viceversa, si muove in un mondo che sta ridiscutendo profondamente i rapporti di forza che lo caratterizzano, a partire dal rapporto centro-periferia, discusso ampiamente lungo le ultime tre decadi del XX secolo e al momento in corso di cambio di polarità. La sua trilogia dell’Ibis rappresenta per molti versi la pietra tombale dell’egemonia culturale Occidentale e anglofona: l’ambientazione del romanzo ridisegna la storia recente ponendo il fulcro degli avvenimenti non più in Europa, ma in Asia; le Guerre dell’Oppio vengono rilette (accogliendo le letture accademiche più accreditate e recenti) come un’escalation dello sfruttamento coloniale, ma allo stesso tempo l’autore identifica negli spostamenti forzati degli Identured Labourers la fondazione di una nuova società, che idealmente si libera del fardello di superstizioni e blocchi sociali mediante l’attraversamento della Kala Pani, in un percorso di “purificazione inversa” che genererà delle società più mobili e meno ingessate, ma sempre connesse al retroterra culturale da cui provengono. Di fatto, Ghosh rilegge la Diaspora a posteriori, provando ad applicare le categorie buone per spiegare la Masala diaspora (quella cui egli appartiene a tutti gli effetti) alla Sugar Diaspora. Il risultato è una trama densa di avvenimenti che hanno grande profondità di lettura, e una metonimizzazione dei personaggi, che nella loro grande specificità vanno a dipingere un quadro molto complesso di interazioni tra caratteri molto peculiari. Ghosh gioca con l’identità. Non c’è un singolo personaggio del suo romanzo che si possa determinare euristicamente. L’attenzione descrittiva non spiega tutto: in realtà sono le storie individuali che delineano personalità complesse, nessuna delle quali si può dire pienamente risolta. Attraverso la definizione della propria lotta interna per l’equilibrio, Ghosh descrive le difficoltà attuali di trovare una centratura, data la situazione di grande confusione identitaria scaturita dall’esplosione di connettività dovuta alle nuove tecnologie.


 

Mahomet e Ghosh

Porre su un piano comune due indiani così diversi e così lontani per retroterra, cultura e tempo storico necessita un’operazione complessa, resa possibile dall’analisi comparata delle loro opere e delle variabili ambientali cui esse soggiacciono. C’è poi un elemento biografico che li avvicina concettualmente, e che rende i due autori in qualche modo vicini. Ma come in tutte le operazioni di poiesis, sono le differenze a rendere interessante il paragone.

Ciò che accomuna Ghosh con Mahomet è l’amore nei confronti della cultura dominante. Seppure il pensiero dello scrittore di Calcutta sia inscrivibile tra i critici delle logiche del capitale moderno (La critica allo sfruttamento coloniale, metafora di quello imperialistico moderno presente nella Trilogia dell’Ibis ne è un esempio lampante), è altresì vero che egli si pone nell’alveo della critica occidentale, anche se distorta dalla reinterpretazione che sul finire degli anni novanta del XX secolo ne hanno dato alcune scuole accademiche orientali (ciò a dimostrare ulteriormente la natura liquida dell’accademia moderna). Il primo punto di grande differenza tra Ghosh e Mahomet è lo strumento dell’autobiografia. Quando scrive, Ghosh lascia liberi i personaggi che escono dalla sua penna di agire secondo la loro coscienza. Se in ciascuno di essi c’è qualcosa dell’autore, non lo si può affermare con certezza. Anche nelle occasioni di confronto pubblico, Ghosh non si lascia definire con facilità; chi ha avuto possibilità di intervistarlo, ha potuto intrattenere con lui splendide discussioni su massimi sistemi, ma difficilmente l’uomo si sbottona. Preferisce farsi definire, piuttosto che definirsi, ed è in questa forma di autodifesa che intravediamo tutta la sua modernità. Ghosh pone una grande attenzione alla sua vita privata, e riesce a tenere stagna la sua attività di scrittore dal suo orizzonte privato, che mai lascia l’impressione di colare nei suoi romanzi, anche se – ad una lettura attenta – appare chiara la presenza demiurgica nell’uso del suo io narrante.


 

  1. l’emigrazione nell’opera dei due autori;

Entrambi gli scrittori condividono una precoce esperienza di viaggio. Come accennato, Dean Mahomet lascia il Bihar come attached a Baker, seguendolo nella carriera dal grado di Cadetto a quello dicapitano fino ad arrivare a Independent Command[4]. Rimanendo alle dipendenze di Baker, Mahomet viaggerà attraverso l’India al soldo dell’Esercito della Compagnia. Qui avrà modo di visitare il Subcontinente in lungo e in largo, come riporta sempre Fisher:

   “[W]e can retrace his eventful journeys with the English Company’s army as it passed up and down the Ganges River[…]. His dramatic narrative of his travels though diverse cities (including Calcutta and Benares) and rural environments (including dense jungles, arid plains, and rich agricultural regions), and his range of interactions with the varied peoples living in each, enables us to understand the complexity and internal divisions within Indian society. […]. His marches with the English Company’s army took him perhaps as far west as Delhi and certainly as far east as Dhaka (today Bangladesh); later he sailed to Madras in south India (see Map). As he traveled, the multiplicity of Indian society meant that each city and region which he encountered struck him as novel. He described each vividly to his British audience.”[5]

La vita militare ha avuto un peso anche nella formazione del giovane Ghosh: il padre era infatti Tenente Colonello dell’Esercito Indiano, e per questo motivo anche il giovane Amitav ha viaggiato attraverso al seguito della famiglia. Ha viaggiato attraverso l’India, come recita la sua storia scolastica (educazione primaria in Uttarkhand, College presso il St. Stephen di Delhi, completamento del B.A e del M.A alla Delhi University, infine Dottorato in Antropologia conseguito a Londra presso il St. Edmund Hall, Oxford), ma le sue biografie parlano di soggiorni in Iran, Sri Lanka, Egitto, Bangladesh e Inghilterra.

Di certo, ha vissuto per anni presso Il Cairo, dove ha preparato la sua tesi di dottorato e scritto in seguito In an Antique Land, basata sull’esperienza di vita nel villaggio egiziano e intersecata con le ricerche di archivio del suo lavoro, dalle quali scaturì la lettera che dà il via al romanzo, quella datata 1141 d.C. in cui il mercante Palestinese Khalaf Ibn Is’h’aq, scrivendo al collega e amico ebreo Abraham Ben Yij, residente a Mangalore, menziona di sfuggita uno schiavo indiano alle dipendenze di quest’ultimo. Da qui, con in mano solo quel frammento, Amitav Ghosh si mette alla ricerca dello schiavo, dipanando un lavoro magistrale, sospeso tra ricerca storica, sociologia e invenzione che lo porterà ad affacciarsi sulla scena internazionale come scrittore molto promettente.

Di conseguenza, per quanto riguarda l’attitudine al viaggio e la familiarità con il sistema militare, i due autori possono essere posti su un piano di confronto. Ciò che però li distingue profondamente, e che salta agli occhi, è la diversa postura intellettuale, l’atteggiamento che essi hanno nei confronti dell’egemonia culturale anglofona.

 

  1. Lingua e tematiche nelle poetiche dei due autori;

 

Entrambi scelgono la lingua inglese come via di espressione. Entrambi operano questa scelta in funzione del proprio uditorio: entrambi pongono la loro esperienza individuale come chiave di lettura del mondo indiano, pur marcando delle distanze da esso. Mahomet, però, abbraccia la visione coloniale del potere Britannico; egli è figlio del periodo storico di massima espansione imperialista, quella che secondo Said rappresenta la nascita dell’Orientalismo come costruzione occidentale volta a legittimare le dinamiche di potere attraverso la rappresentazione di un Oriente astratto e ridotto a funzione di rafforzamento identitario del colonizzatore, e che secondo Watt ha avuto nella figura di Robinson Crusoe la costruzione di un archetipo letterario. Ghosh, al contrario, è critico nei confronti dell’imperialismo, in quanto figlio di una realtà storica, quella di una visione terzomondista cresciuta dopo la decolonizzazione e assurta definitivamente a dignità accademica con gli studi Culturali, Postcoloniali e la scuola storiografica di ispirazione marxista dei Subaltern Studies durante gli anni ottanta e novanta del XX secolo. Inoltre si deve tener conto del differente grado di acculturazione tra i due; Mahomet apprende la lingua inglese nel corso del suo servizio, mentre Ghosh ha accesso ai livelli più alti dell’istruzione accademica e si forma in discipline che concorrono a strutturarne il pensiero anticoloniale.

3. Due indiani che raccontano l’India

Se in apparenza il paragone tra Ghosh e Mahomet può reggere, per il fatto che entrambi hanno optato per una scelta migratoria con il fine ultimo di una stabilità economica, ad uno sguardo più approfondito le due biografie hanno una differenza sostanziale, che in qualche modo può spiegare le differenze contenutistiche tra le opere dei due scrittori: l’ambito culturale in cui sono cresciuti. Dean Mahomet opera la scelta di seguire l’esercito della Compagnia mosso da una posizione di bisogno: la prematura scomparsa del padre con la conseguente eredità di posizione da parte del fratello, porta Mahomet a doversi trovare da solo una strada all’età di undici anni. Molto giovane, dunque, si trova esposto ad un modello di autoaffermazione molto seducente, finendo per abbracciarlo fino all’estrema conseguenza di arrivare a rimuovere alcune istanze legittime da parte della cultura autoctona. Cioè a dire, Dean Mahomet non si creolizza, ma sostituisce l’impianto culturale in cui è cresciuto per undici anni della sua vita con quello con cui viene indottrinato nell’esercito della compagnia. Assorbe la cultura e i modi degli occidentali per esposizione prolungata, e ciò diverrà una pietra angolare della costruzione della sua identità. Dean Mahomet è di fatto il primo esempio documentato di Identità in Transito, nel senso che la sua stessa vita è asse trasversale tra due linee che la mentalità coloniale vuole mantenere parallele e prive di contatto, perpetuando la dicotomia tra Colonizzatore e colonizzato, strumentale al potere imperiale per autoleggittimarsi. Per questo, nonostante il rigore formale e vittoriano della sua prosa, la differenza fondamentale tra la sua opera e i suoi corrispettivi europei è basilare. Il diario di viaggio di Dean Mahomet conferisce umanità agli abitanti dell’India; con le sue descrizioni dall’interno, Mahomet dona una logica alla tradizione autoctona (specialmente islamica), e contemporaneamente, attraverso l’uso della lingua inglese, dimostra fattualmente la capacità di elaborazione da parte indigena, usando la sua scrittura per conferire personalità e pregi al soggetto colonizzato e comunicarla al lettore colonizzante. Anche se la narrazione è paternalistica, e ammette nei suoi sottotesti la superiorità della cultura occidentale nei confronti dell’elemento Indiano, abbiamo nelle pagine di Dean Mahomet un precedente molto importante della narrazione Indo-Anglian: un corto circuito, in cui lo scrittore senziente cerca di negare sé stesso, attraverso una diegesi molto distaccata dai fatti narrati e declinata attraverso un interesse quasi etologico, che però non riesce ad essere distante come quello europeo. Mahomet parla della diversità, ma lo fa da un osservatorio che non gli permette di essere del tutto estraneo a ciò che descrive. Dalle pagine del suo romanzo epistolare, appare chiaramente: la lingua di Mahomet è Vittoriana, debitrice per forma e contenuti agli stilemi in voga nell’Europa dell’epoca, e si inserisce a pieno titolo nella narrazione coloniale fotografata da Said e Bhabha. Alcuni sospettano addirittura che dietro la forma perfetta della lingua di Mahomet, ci sia un mano occidentale, portando ad esempio interi passi che ricalcano i racconti di viaggio di Occidentali:

       Some modern readers may expect that, because Dean Mahomet was ethnically Indian, he would have produced an account radically—instead of subtly—different from his contemporary European writers. Such an anachronistic expectation of an Indian nationalist stance misinterprets his position and circumstances. We must move beyond the stark dichotomies of identity between colonized and colonizer, Orientals and Westerners, “us” and “them” that have become the hallmark of both imperialist and nationalist/anti-imperialist discourse. Rather, each person embodied a range of positions, as Dean Mahomet and Equiano demonstrated in their writing and their lives. Dean Mahomet wrote for the British elite, on whom he depended and among whom he married and lived as an immigrant, about his years of service as an Indian camp follower and then subaltern officer in the English Company’s army as it conquered India. In his Travels, he assessed the virtues and flaws of both British and Indian cultures, each of which did much to shape his identity. He stood between them, rather than as wholly part of either.[6]

Già nelle pagine di Mahomet, insomma, vi è quel germe di individualismo che in epoca più tarda, con gli studi culturali e postcoloniali supererà la dicotomia orientalistica, sostituendo il modello binario con quello multipolare. La caduta dei muri e la conseguente entrata nel mondo post-ideologico rende infatti obsoleto il modello binario e antinomico tra società ereditato dall’orientalismo e proseguito dalle Superpotenze dopo la seconda guerra mondiale; l’esplosione delle tecnologie farà sì che i movimenti sociali mandino in crisi i modelli basati sull’aggregazione (culturale, politica, identitaria), ponendo l’essere umano al centro di un sistema individualistico. Benedict Anderson per primo ha intuito la caduta della fisicità delle relazioni, teorizzando una nuova mappatura dei trans-nazionalismi in Imagined Communities e incorporando le varie diaspore nel mondo all’interno di una percezione di popolo che supera i limiti fisici della prossimità geografica; la Società Liquida fotografata da Zygmunt Bauman e la teoria degli –Scapes di Arjun Appadurai contribuiscono a centrare ulteriormente la problematica, poiché vengono elaborate e sviluppate durante il secolo dell’esplosione tecnologica; l’uomo si adegua al modello reticolare, che di fatto è la stessa logica che governa il funzionamento del web; diventato relazionale da gerarchico che era. La società viene ad organizzarsi non più attraverso dei criteri di rappresentanza a cascata, tali che un’idea prenda corpo mediante il progressivo radicarsi in un gruppo definito (ed espandibile) di persone. L’uomo postmoderno diviene un nodo, interconnesso con un’unica, magmatica comunità virtuale McLuhaniana, ed è messo in condizione – per la prima volta nella storia umana – di essere vettore e destinatario di concetti e idee, senza necessitare alcun passaggio sociale intermedio (partiti politici, correnti letterarie, scuole di pensiero “fisiche”). Si assiste ad una pubblicizzazione del privato, e progressivamente, l’uomo diviene contenuto di una narrazione sempre più specifica, da egli stesso alimentata. La direzione della società continua ad essere determinata da aspetti strutturali, ma la sovrastruttura cambia forma e perde di importanza, poiché i mezzi di circolazione economica si sono moltiplicati, e prescindono da un’organizzazione umana che li perori.

Dean Mahomet è antesignano di questo processo. La società inglese del tempo si trova a doversi relazionare con lui al di fuori degli schemi in qualche modo imposti dal comune sentire, in quanto Mahomet è sufficientemente attrezzato per metterne in crisi il modello gerarchico, fondato sull’assunto di una superiorità morale, culturale e tecnica, ma allo stesso tempo non vuole farlo, poiché è concio che è proprio quel modello a dargli i mezzi per vivere, e non vuole rinunciare al suo stile di vita, modellato su quello britannico:

Dean Mahomet clearly presented himself as an individual, with passages (particularly in his first chapter) which show his self-awareness—imagining how others perceived him. Each of the engravings which he published in Travels represented an aspect of his identity: an European-dressed Indian Gentleman, an Indian army officer, and an Indian courtier in an Indian ruler’s procession[7]

 


 

[1] Michael H. Fisher, The travels of dean mahomet: An eighteenth-century journey through india, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – London 1997

[2] Ibid. pag. 5

[3] ibid.

[4] ibid.

[5] Ibid.

[6] ibid.

[7] Ibid.

[8] Enciclopedia Britannica On-line, voce scritta da J.E. Luembering, http://www.britannica.com/EBchecked/topic/1537377/Amitav-Ghosh

[9] A. Ghosh, The Testimony of my Grandfather Bookcase, Kunapipi; A Journal of Post-Colonial Writing (U.K.), 1998

http://www.amitavghosh.com/essays/bookcase.html