Ed eccomi qui. Nuova interfaccia del blog, tanto tempo di inattività.D’altra parte studi, lavori, vicissitudini varie (tra cui l’esplosione dell’alimentatore del mio povero PC) hanno fatto sì che diradassi la mia presenza sul web. Nel caso del Blog, poi, che la cancellassi proprio, per quasi un mese.
Senza andare a ravanare tra le mille porcaggini che ho visto nell’arco di questi giorni – ma mi piace citare lo sciopero contemporaneo di Magistrati, Medici e Aereotrasportatori, più le agitazioni permanenti di ormai tutta l’intellighenzia del nostro paese, parlamentari a parte – mi prendo il gusto di raccontarvi uno dei più bei concerti cui abbia assistito negli ultimi anni.
Terry Riley si presenta come una via di mezzo tra Babbo Natale e Dinamite Bla. Ha una candida barba folta e lunga, che gli dona una sorta di serena austerità, e uno sguardo che ho visto in certi musicisti indiani, così benevoli e indifferenti a tutto ciò che orbita loro intorno. Saluta all’indiana, unendo le mani, e portandole alla fronte, e subito ho l’impressione che il Van-Prashta che ha avuto nei tardi sessanta, lasciando battere la via del minimalismo da lui scoperta ad artisti come Reich o Glass, gli sia rimasta dentro. Lo studio con Pandit Pran Nath ha esaltato la ciclicità della sua musica, e la facilità con cui passa dal dialetto musicale Euro-americano a quello del subcontinente indiano è uno strano incrocio tra ironia, erudizione e consapevolezza. Con una semplice Korg Triton, che mi ha fatto sulle prime storcere il naso, crea tessiture che vanno al di là del semplice discorso musicale. L’accordatura, maniacale, non a 440 Hz, da una chiara impressione di profondità di suono differente. E’ come se il musicista avesse capito che la differenza di pochi Hertz è la chiave della giusta vibrazione dell’anima.
Stefano Scodanibbio invece ha l’aria del concertista navigato. Serio, occidentale in presenza, offre un contraltare alla ieraticità quasi Hippy del suo collega di palco. E’ serio, posato, ma allo stesso tempo fermo e attento. Poi, prende il contrabbasso in mano.
Faccio il musicista da 14 anni, e non ho mai sentito niente di simile. L’archetto diventa uno strumento a parte, per cogliere quell’armonico, quello che sta pochi hertz sopra o sotto il 440 canonico. Microfona lo strumento con un cardioide con un preservativo di gommapiuma, che incastra sotto il ponte, tra le corde e la cassa. Questo sistema fa in modo che la vibrazione simpatica tra la tastiera di Riley e il contrabbasso faccia vibrare la cassa ad una certa frequenza. A questo punto, una volta innnestato l’armonico “magico”, comincia ad ordire trame ritmiche, alternando l’uso dell’archetto a mo’ di bacchetta di batteria, sfruttando il rimbalzo come Gene Krupa insegna ad una tecnica particolare di tapping, che non ho mai visto applicata al contrabbasso. Un po’ alla chitarra, roba tipo Stanley Jordan, ma scrivendo questo paragone non so se mi si accappona la pelle oppure mi viene da ridere.
In apertura del secondo set, dopo avere tra le altre cose puntinato le corde dello strumento come un pianoforte preparato, si è espresso in un solo talmente funambolico che, a partire dalla metà, la mia mente ha viaggiato per lidi bellissimi, fino alla fine in cui lo scroscio di applausi richiamava più una platea da stadio che da aula magna d’università.
Dal canto suo, Riley ha sfruttato il tempo di solitudine sul palco in maniera più introspettiva; un piano solo, con un bel suono di coda denso e scintillante, frutto di una trascrizione della sua opera Salome dances for Peace, quartetto d’archi del 1989, formato da qualcosa come ventuno movimenti (se la memoria non mi inganna). Il concerto è stato chiuso da un Raga notturno, che a mio parere è stata la parte un po’ più debole della serata. Anche se stupisce come un californiano abbia un timbro d’altre latitudini.
Un’ultima nota, questa di colore. A cavallo tra il Madya e il Drut Lay (velocità media-Velocità alta) del raga sono zompate tutte le spotlights del palco. Nell’oscurità più completa, si è creata un’intimità tale tra il pubblico e gli artisti che, al riaccendersi delle luci, è stato palpabile il dispiacere per un’oscurità tanto serena quanto breve. Potenza della musica.
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