Ieri concerto di Brad Mehldau all’Auditorium.
Il Trio era composto, oltre allo stesso Mehldau, dai bravi Larry Grenadier al Contrabbasso e da Jorge Rossy alla batteria. E’ il primo concerto del pianista che vedo, lui l’ho conosciuto, grazie a Luca Bernardini, quest’estate. Il disco era Largo, ed è stato amore a seconda vista. Già, perché ho avuto un qualche problema iniziale ad interpretare lo swing di questo musicista, ma la pastosità del suo suono mi ha catturato poco a poco, senza fretta.
L’ascolto del disco è stato completamente riletto, alla luce del concerto. Mi spiego meglio: dal vivo si ha l’impressione, che su una registrazione non si può percepire, che Mehldau crei le tessiture armonico-ritmiche in tempo reale; il risultato è la sensazione è che egli stia in improvvisazione costante, azzardi sempre qualcosa di estemporaneo, e cada sempre in piedi. Di qui potrei parlare di un’infinità di cose; di come il batterista e il bassista mi abbiano fatto impazzire per il gusto e la semplicità di alcune soluzioni elegantissime; dell’atteggiamento introverso di Mehldau, che tanto richiama quell’esistenzialismo con cui tanti critici l’hanno ammantato; dell’accordo maggiore, assolutamente Bachiano con cui ha avuto fine l’ultimo bis, quindi l’ultima cosa detta dal jazzista ad un pubblico attento e soddisfatto. Potrei, ma in realtà è semplicemente volato un bellissimo concerto. E quando – in una Roma mai piovosa come questi giorni – siamo usciti, il cielo vicinissimo, gli ombrelli aperti e quell’impremeabile che correva in lontananza con un giornale sulla testa hanno avuto un sapore diverso. Un’intera giornata uggiosa ha avuto improvvisamente senso.
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