E’ legittima la libertà creativa per un agnostico abitante di uno stato laico che decide di fare un film su Maometto? In Italia, per fare un esempio, lo è: la Costituzione prevede che la libertà di espressione non sia sindacabile e non possa essere limitata da nessuna legge (come invece accadeva ai tempi dello Statuto Albertino). Ma è ancora possibile ragionare in termini nazionali, quando il mondo è diventato McLuhaniano, e le scelte operate a migliaia di chilometri influenzano la vita di tutti noi? E’ già successo – con le barzellette danesi e con la maglietta di Calderoli – che le piazze islamiche si agitassero; sotto un certo punto di vista, quello condiviso da un miliardo di persone, c’è da riflettere: la verità è soggettiva, ma la fede non lo è: le due cose insieme danno come risultato che un film nato con chissà quali intenzioni dalla sensibilità soggettiva di un autore (di cui non staremo qui a sindacarne la qualità) verrà recepito dalla soggettività di un miliardo di fedeli, i quali vedranno attaccate volgarmente le basi dell’unica cosa che a loro modo di vedere è oggettiva, cioè la loro fede. O per farla più prosaica, vedono e sentono un cane infedele bestemmiare tra il plauso sghignazzante di quei porci che mangiano a spese del presente altrui e del futuro di tutti. A quel punto, non c’è legge nazionale che tenga. C’è solo la guerra. Ma vi siete già dimenticati di quando Rushdie doveva andare in giro sotto scorta? Guardate che viveva a Londra, non nel Barhein. E i versetti satanici aveva un portato letterario e culturale ben più rispettabile di quella cazzata fatta col chroma key che ho visto in TV.
In merito a questa storia, non ho smesso un attimo di pensare ai Sanculamo, o ai Prophilax. Ricordo infatti la genesi di brani e idee, ne ricordo i meccanismi creativi (la raccolta e l’elaborazione di tutte le cazzate del mondo), la ricerca delle rime da parte degli autori e persino alcune macchine che si sono usate per degli effetti. Mi ha sempre impressionato la traslazione di significato infinita che quei pezzi hanno avuto con la moltiplicazione (esponenziale), prima con le cassette, poi con Internet. Ho realizzato per la prima volta negli anni novanta che di fronte all’oscenità l’essere umano si sente in dovere di esprimersi. Che le cose che generano dibattito sono quelle più vicino alla pancia, e non alla testa. E ancora mi ricordo le risate compiaciute di alcuni, quando altri si lanciavano in esegesi di testi che parlavano di bocchini e inculate scovandoci significati inaspettati (e assolutamente non voluti dai loro creatori) eppure perfettamente sensati.
Ho sempre sognato un mondo in cui va al contrario, in cui la gente si confronta su temi alti, condivisi, utili. Maddeché. La TV racconta piazze che si sollevano per un film scadente, ma in realtà quella rabbia ha un’origine lontana; nel Villaggio Globale, anche la narcosi diventa condivisa, e anche l’attenzione degli uomini di fede diventa intermittente, digitale, binaria. Quindi non sbrocchi più perché tuo figlio deve andare ad attingere l’acqua in un pozzo a sei chilometri di cammino, ma perché un coglione vestito da Maometto mangia delle costolette di maiale. Ecco, questo mi sembra il punto su cui riflettere: è possibile rompere una catena di ingiustizie quando l’impronta del mondo secolare è così profonda nelle coscienze di tutti noi?
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